Il presepe e l'albero: storie d'amore e d'immortalità
La recente polemica su #Spelacchio e la ben più annosa controversia sul presepe come #tradizione cristiana secondo taluni troppo identitaria e offensiva della laicità e della sensibilità di altre fedi, ci spinge ad una riflessione più costruttiva sui nostri simboli natalizi. La loro storia e il loro significato, del resto, sono raramente oggetto di spiegazione sia tra le famiglie che a scuola e persino nelle parrocchie.
Partiamo dall’albero di Natale e sgombriamo subito il campo da equivoci: pur essendo le sue origini certamente pagane, esso è un simbolo pienamente cristiano. Sorta in Germania alla fine del XVI secolo, questa tradizione natalizia presenta un antefatto, risalente a quasi un millennio prima, ovvero agli anni in cui quella stessa terra conobbe la sua prima evangelizzazione, grazie all’opera di San Bonifacio. Imbattutosi in un gruppo di pagani riuniti intorno alla Sacra Quercia del Tuono di Geismar in adorazione del dio Thor, il santo proclamò: “Questa è la croce di Cristo che spezzerà il martello del falso dio Thor!”. E prese ad abbattere a colpi di scure l’albero sacro che si spezzò in quattro parti. Il crollo del tronco svelò un piccolo abete, che San Bonifacio indicò ai pagani come il loro nuovo “sacro albero”, simbolo di una “vita senza fine, perché le sue foglie sono sempre verdi”, mentre la sua forma a punta pare indicare il cielo. In questo modo, Bonifacio riuscì a convertire i pagani, invitandoli a riunirsi intorno all’albero nelle loro case e a non compiere più “riti di sangue” ma di “riti di bontà” e a scambiarsi “doni d’amore”.
L’abete richiama anche l’Albero della Vita e i doni che ci scambiamo ai suoi piedi, simboleggiano il dono di se stessi. Da qui l’usanza, sotto Natale più che in altri momenti dell’anno, di dedicare un tempo particolare ai poveri, ai malati e, in generale, ai meno fortunati.
Vedere un albero di Natale moribondo e dalle fronde poco verdi è dunque uno spettacolo particolarmente deprimente: sul piano simbolico fa pensare ad un’immortalità negata, ad un vigore fiaccato, ad uno splendore beffeggiato. Al di là dell’aspetto strettamente istituzionale della vicenda di “Spelacchio”, però, non tutti i mali vengono per nuocere. Se molti romani e italiani se ne sono comprensibilmente rattristati, ben venga se questo episodio avrà risvegliato in loro una nostalgia di bellezza, solidità, luce, calore e nobiltà d’animo. Solo l’inquietudine per l’assenza o la perdita di cose belle, può rimettere in moto il desiderio di quelle cose e cambiare il mondo.