Siamo ormai giunti nel cuore dell’Avvento e, puntuali quanto i panettoni, gli addobbi e lo shopping per i regali, sono arrivate le polemiche sul presepe. L’esposizione dell’arte presepiale suscita sempre reazioni forti e di segno opposto. Ciò, di per sé, è un segno positivo, perché mostra la non indifferenza della maggior parte della popolazione ai simboli sacri. Il punto su cui, però, siamo in alto mare, è la mancata comprensione del reale significato culturale e religioso del presepe [Per approfondimenti cliccare qui]. Ciò dà luogo a due atteggiamenti speculari ed entrambi errati: il primo è l’ostilità al presepe in quanto espressione della tradizione cattolica, quindi divisivo nei confronti delle altre confessioni religiose. L’altro è la sua ostentazione proprio come simbolo ultraidentitario e, quindi, in contrapposizione ad altre culture e religioni.
La diatriba più recente ha coinvolto la Regione Piemonte, dove l’assessore all’Istruzione, Elena Chiorino, in una lettera inviata a tutte le scuole piemontesi, aveva incoraggiato i presidi, in prossimità del Natale, a “valorizzare all’interno della scuola ogni iniziativa legata a questa importante Festività, come l’allestimento di presepi o lo svolgimento di recite e canti legati al tema della Natività”. Una scelta che, secondo l’assessore, andrebbe “nel senso della valorizzazione delle tradizioni, della cultura e dell’identità del territorio e dei suoi abitanti”, proprio perché il presepe, l’albero di Natale e i canti natalizi sono “parte fondante della nostra identità culturale e delle nostre tradizioni”. L’auspicio è che “la conoscenza delle nostre tradizioni, scevra da qualsiasi connotazione ideologica, sia un supporto alla piena integrazione per chi proviene da altre realtà”.
La presa di posizione dell’assessore regionale ha scatenato l’ira dei laicisti. Per il presidente dei Radicali Italiani, Igor Boni, quella lettera avrebbe soltanto “fini propagandistici”. Ancora più infuriato lo storico dell’arte Tomaso Montanari, secondo il quale la sollecitazione della Chiorino nei confronti dei dirigenti scolastici sarebbero espressione di una “violenza inaudita” nei confronti: di “insegnanti, alunni e genitori, che si trovano a subire questa pressione politica e ideologica dall’alto”; della “laicità dello Stato”; dei “cattolici che ci credono davvero”; dei “più deboli”.
Certo, il presepe dà fastidio a molti. Persino qualche prete ‘al passo coi tempi’, ogni tanto, ce lo ritroviamo a esternare la sua contrarietà, in nome del “dialogo” e del “ciò che unisce e non ciò che divide”. Atteggiamento incomprensibile, nella misura in cui, in tanti anni di immigrazione islamica nel nostro Paese, i casi di musulmani che abbiano contestato l’esposizione del presepe nelle scuole o in altri luoghi pubblici sono prossimi allo zero. Altri lo usano a fini strumentali, come quel noto parroco toscano che ha collocato la Sacra Famiglia all’interno di un canotto, per indirizzare l’attenzione verso il dramma degli immigrati clandestini. Strano, però, che nessun paladino del laicismo italico abbia contestato la scelta di questo zelante presbitero, né alcuno l’abbia accusato di voler imporre la sua fede cristiana ai tanti africani di religione musulmana ospiti della sua parrocchia…
La verità è che, lungi dall’essere un simbolo divisivo, il presepe è uno straordinario strumento di dialogo interreligioso e interculturale. Non solo perché offre uno sguardo sulla Palestina di duemila anni fa, crocevia di popoli come oggi. Non solo perché vi sono raffigurati i Re Magi, rappresentanti di una civiltà lontana ed estranea a quella giudaica. Non solo perché richiama il principio dell’accoglienza, nell’immagine di Dio fattosi uomo che, rifiutato dagli uomini prima di nascere, fa della sua grotta nativa un ‘catalizzatore’ per i pastori, a loro volta reietti e rifiutati. Il presepe è un’occasione di dialogo, in primo luogo perché rappresenta un simbolo della nostra civiltà cristiana. Un simbolo di pace, di gioia, di speranza e di inclusività. Se Dio si fa bambino, nulla potrà essere offensivo o minaccioso in Lui. Si dialoga con chi è diverso da noi, non a partire da ciò che non siamo ma a partire da ciò che siamo. Quando si dialoga non si va immediatamente alla ricerca di un punto di incontro, di sintesi o di mediazione ma si parte sempre dalla nostra identità, da ciò che ci è più caro, da ciò che ci rende pienamente uomini. E, anche se non dovessimo riconoscerci completamente in quei simboli, non potremo mai impedire ad altri di farlo.