L’ospite di questa sera si chiama Salvatore Stornello, ha 34 anni, nato a Comiso (Rg) e vive ad Acate in provincia di Ragusa, è sposato da due anni, e lavora come psicologo clinico, laureato presso l’università Kore di Enna.
Una delle sue passioni è scrivere; ha avuto importanti riconoscimenti a livello nazionale per quanto riguarda la poesia. Ha vinto il primo premio nel XIII concorso nazionale di poesia “Napoli è” indetto a Napoli, il primo premio di poesia nel IV premio “Hiscor”, e partecipato come giuria a vari concorsi.
Una vita molto attiva nel sociale e nell’amministrazione, è stato assessore comunale presso il comune di Acate alla cultura, lavori pubblici e manutenzione; ha lavorato come responsabile nell’equipe socio-psico-pedagogico presso le scuole della sua città. Attualmente lavora come psicologo presso la comunità per le dipendenze patologiche “L’oasi” dell’Associazione Casa Famiglia Rosetta”.
Ha scritto recentemente un libro autobiografico dal titolo “Oltre le faglie del dolore” con la prefazione del prof. Umberto Nizzoli che ha definito il testo come “psicopatologia pratica dell’infanzia e dell’adolescenza”.
Dobbiamo raccontare la tua storia da una data ben precisa il 22 ottobre 2000. Da quel giorno la tua vita cambierà. Ci racconti cosa è successo?
Il 22 ottobre 2000 cadeva di domenica; dopo aver consumato un pranzo di famiglia dai miei nonni materni, decisi di andare nel pomeriggio con mio zio e due suoi figli a trovare un signore nei pressi di Chiaramonte Gulfi, contrada Coffa. Nel pomeriggio, quando mi recai a casa di mio zio per posare il mio scooter e andare con loro, mia zia, sorella di mia madre, mi disse che erano già andati via; così, in preda ad un pizzico di rabbia per non avermi aspettato, decisi di raggiungerli lo stesso, li incrociai a metà strada, facendoli tornare indietro a riprendermi. Arrivati quasi a destinazione, lo scontro violentissimo con un’auto di grossa cilindrata che viaggiava a velocità sostenuta dalla corsia opposta. Da quel momento non ricordo più nulla. Fui trasportato d’urgenza in elisoccorso presso l’ospedale Cannizzaro di Catania e sottoposto ad un delicato intervento chirurgico per asportare un trauma cranico. A fine intervento fui tenuto per alcune settimane in coma farmacologico.
Tu non ricordi nulla di quelle settimane di coma? Chi ti è stato vicino?
Di quelle settimane trascorse in terapia intensiva non ricordo nulla, è come se ci fosse stato un black aut temporale della mia vita. Non c’è stata consapevolezza del tempo: un giorno o mille anni sarebbero stati indifferenti. Mi è stata vicina tutta la mia famiglia, nel periodo trascorso in rianimazione i miei familiari potevano entrare singolarmente per non più di cinque minuti ciascuno. A mia madre, invece, fu vietato di entrare perché in stato di gravidanza e per questo si visse una doppia sofferenza.
Una volta sveglio, ti trasferirono al reparto di neurochirurgia. Racconti che in quel momento guardando il cielo hai pensato a Dio …
Appena mi svegliai dal coma fui trasportato nel reparto di neurochirurgia. Nel tragitto che dalla rianimazione mi portava al nuovo reparto ad un tratto, da una finestra, vidi il cielo azzurro e le nuvole bianche sopra di me, pensai di essere in paradiso, perché non sapevo ancora dove mi trovavo e cosa fosse successo, mi credetti morto e quella luce che mi arrivò diritto agli occhi mi fece pensare a Dio. Da quel momento in poi mi tornarono in mente come una pellicola a ritroso tutti i miei ricordi passati, tranne l’incidente.
Come sono stati quei giorni? Cosa ricordi?
Del periodo trascorso in neurochirurgia ricordo pochissime cose. Avevo sempre fame e non riuscivo più a distinguere il giorno dalla notte, perché dormivo incessantemente. A tal proposito, una notte, mi svegliai dopo aver fatto un brutto sogno e mi misi ad urlare, dissi a mio padre che ero diventato cieco, lui a sua volta mi tranquillizzò dicendomi che era notte e le finestre erano chiuse, per questo vedevo buio e non perché avessi perso la vista.
Che conseguenze fisiche ha subìto il tuo corpo a causa di quell’incidente?
Da quell’incidente ho riportato conseguenze fisiche pesanti, prima tra tutti un’emiparesi alla parte destra del corpo, che nel tempo, però, non mi ha limitato nella vita quotidiana, anzi, mi ha dato maggiore carica a poter affrontare gli ostacoli della vita.
Essendo psicologo, è difficile superare psicologicamente un evento così drastico come un incidente? Ti ha aiutato anche la fede in tutto questo?
Bella domanda. Quando iniziai a studiare psicologia all’università imparai un termine nuovo, quello di resilienza, cioè, la capacità di fronteggiare eventi stressanti e traumatici. Il caso ha voluto che io prima di studiarlo lo sperimentassi in prima persona; secondo me, in un evento drastico come un incidente non hai molto da scegliere o accetti la sfida oppure ti piangi addosso per il resto della tua vita: io ho sempre scelto di lottare. La fede in questo mi ha aiutato molto, perché mi ha messo davanti gli occhi la sofferenza di Cristo.
Un anno dopo il tuo incidente, nasce la tua sorellina ma affronti un altro duro colpo: la separazione dei tuoi genitori a causa di una donna. Come superi questa prova?
A pochi mesi dall’incidente nacque mia sorella di sedici anni più piccola di me. Io sono il primo di tre figli, il secondo è cinque anni più piccolo di me. Dopo la nascita di mia sorella, però, mio padre andò via di casa a causa di un’altra donna, scaricando nelle mie mani la gestione familiare; ho sempre, quindi, cercato di incoraggiare mia madre e i miei fratelli a non abbattersi e guardare in maniera positiva il futuro, mostrandomi con loro sempre sorridente e sereno, mettendo di lato la mia stessa salute fisica e psichica per prendermi cura di loro.
Secondo te la nostra società, come affronta oggi la realtà della disabilità?
Per rispondere a questa domanda bisogna comprendere prima il concetto di diversità. In questa società ipermoderna dove tutto ruota sul bello, sull’essere attraverso l’apparire, abbiamo una negazione della diversità e quindi un bisogno inconscio di omologarsi all’Altro per essere riconosciuto, la diversità e quindi di conseguenza la disabilità fa molta paura. La nostra società, a mio avviso, ad ogni modo sta cercando di risanare il distacco che c’è tra le persone cosiddette normali e il mondo della disabilità, partendo per esempio dalla modifica del concetto stesso, non si parla più, infatti, di persone con disabilità ma persone diversamente abili. Ad ogni modo la strada è ancora lunga.
Ci sono ancora pregiudizi in merito?
Secondo me, ancora si.
Sei sposato da due anni. Tua moglie condivide con te anche questa tua nuova condizione, questo rafforza l’amore?
Sono sposato da due anni con Cristina, siamo felici e il nostro amore vive di piccole cose quotidiane. Mia moglie dal primo giorno che ci siamo conosciuti ha sempre con-diviso la mia condizione fisica, anche perché lei mi ha conosciuto già così e non mi ha mai fatto pesare la mia situazione. Quando ci siamo sposati mi ha detto: in te non ho mai visto nessuna disabilità.
Cosa vuoi dire a tutti coloro che vivono la disabilità come un peso e che pensano che la soluzione sia quella del suicidio assistito o dell’eutanasia?
A tutti coloro che vivono la disabilità come un peso, posso solo dire di non abbattersi e avere sempre fiducia in Dio e in sé stessi, di continuare a lottare e non lasciarsi contaminare dalle difficoltà che si incontrano quotidianamente, ma viverle come monito per insegnare agli altri che la vita in qualunque modo ci si presenti vale la pena di essere vissuta.
Servizio di Rita Sberna