“Le radici profonde non gelano”. È questa la citazione più celebre di J.R.Tolkien (1892-1973), assieme a un’altra: “C’è del buono a questo modo, padron Frodo! Ed è giusto combattere per questo”. Si tratta di due concetti complementari: le radici evocano la staticità (apparente), la solidità e la linfa vitale. Il combattimento è qualcosa di dinamico e imprevedibile, che può risolversi nella vita o nella morte. In mezzo ci sono il buono e il bello, ciò che armonizza e dà senso ad ogni componente della vita.
Tolkien, di cui questo mese ricorre il cinquantennale dalla scomparsa, è stato uno di quegli intellettuali che hanno avuto forse più un successo postumo che da vivi. Così è stato, perché le sue sono opere senza tempo, non solo e non tanto per l’ambientazione fantasy ma soprattutto perché colgono delle verità sempre attuali, incapaci di invecchiare, in grado di parlare agli uomini di ogni epoca. La parabola intellettuale di J.R.Tolkien è molto singolare: nasce come filologo rigoroso e professore erudito, evolvendosi come narratore appassionato, ricco di pathos, poesia e fantasia sconfinata. Due volti della stessa personalità che non entrano in conflitto ma si armonizzano e si conciliano.
Tolkien è attuale e parla agli uomini di qualunque epoca, innanzitutto, perché mette di fronte i suoi lettori davanti al mistero del bene e del male e del loro scontro escatologico. Non è certo il primo scrittore a far questo ma, tra i grandi dello scorso secolo, è colui che rimette al centro questo topos nella maniera meno scontata. Il Signore degli Anelli è un’opera complessa e, al tempo stesso, facilmente comprensibile. Complessa perché ricca di digressioni e descrizioni dettagliate, in cui la forma narrativa, le metafore e le evocazioni storico-mitologiche hanno un ruolo di primo piano. Facilmente comprensibile, perché parla di realtà eterne. Non soltanto, banalmente, della lotta tra il bene e il male ma di ciò che ad essa è sotteso: le tentazioni, la rabbia, l’amicizia, il coraggio, la paura, il mettere in discussione se stessi.
Le più note tra le creature nate dalla fantasia tolkieniana, gli hobbit, sono l’emblema della natura umana segnata dal peccato originale. L’autore li descrive così: “Del resto, poco o niente di magico c’è in loro tranne il modo comunissimo in cui spariscono silenziosamente e velocemente quando gente grossa e stupida come me e voi capita lì attorno, facendo il rumore di un elefante che essi possono sentire a un miglio di distanza. Tendono a metter su un po’ di pancia; vestono di colori vivaci (soprattutto di verde e di giallo); non portano scarpe, perché i loro piedi sviluppano piante naturalmente dure come il cuoio e un vello fitto, caldo e scuro come quello che hanno in testa (che è riccioluta); hanno lunghe, abili dita scure, facce gioviali, e ridono con risa profonde e pastose (specialmente dopo il pranzo, che consumano due volte al giorno, se ci riescono)” (Lo Hobbit). Di natura, gli hobbit non sono né buoni, né cattivi, sono creature solari che amano godersi la vita, vivono alla giornata immersi in un’aurea mediocritas. Fino al giorno, in cui sono chiamati a un’impresa più grande di loro.
L’anello che dovranno distruggere è il simbolo del potere terreno, quindi dell’ambizione, della tentazione, della vanità. Gandalf è il simbolo della vecchiaia e della saggezza, quasi un messaggero e un intermediatore tra le cose di lassù e le cose di quaggiù. La Terra di Mezzo è un luogo iniziatorio, un passaggio tra la dimensione puramente umana e quella divina: in mezzo c’è l’eroismo, quello vero, quello sacrificale, non per la gloria dell’uomo ma per quella di Dio. Significativo, poi, che, in particolare nella trilogia de Il Signore degli Anelli non vi sia un singolo vero eroe, che spicchi per la sua individualità o per la sua personalità forte: c’è, piuttosto, una compagnia, apparentemente improbabile ma in cui, alla fine, l’unione fa la forza e in cui l’eroismo si legge nella coralità delle azioni.
Tolkien elogia la compagnia dei suoi hobbit, perché tutta la sua vita è segnata da compagnie e amicizie mai banali. Una su tutte: quella con Clive Staples Lewis (1898-1963), che lo stesso Tolkien riuscì a convertire dall’ateismo al cristianesimo (seppure non al cattolicesimo). Tolkien e Lewis, assieme a Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), sono i grandi convertiti della letteratura inglese nel primo Novecento. Tutti e tre testimoni dell’ultimo grande revival spirituale della loro terra, in un’epoca di secolarizzazione, senza alcun dubbio, ma anche di spinte in direzione contraria, agevolate da uno spirito di libertà e di rispetto per le sensibilità religiose che oggi sembra sempre più soffocare. Per tornare, dunque, alla citazione in apertura, quando Tolkien parla di radici, non si riferisce a qualcosa di tradizionale, di antico, né di classico ma a qualcosa di vivo e di eterno. Per farlo, usa il linguaggio della fiaba e del fantasy. Senza parlare esplicitamente di Cristo, Tolkien descrive le realtà eterne e lo fa in modo credibile. È riuscito – forse al di là delle sue reali intenzioni – ad evangelizzare e di questo gli dobbiamo essere grato.