Il termine parresia, molto ricorrente nel linguaggio della Chiesa, è tornato in auge durante il pontificato di papa Francesco, in modo particolare in occasione dei due Sinodi sulla famiglia (2014-2015). Questa espressione greca (παρρησία) è un composto di pan (“tutto”) e rhema (“ciò che viene detto”) e, in senso lato, ma anche ecclesiologico, indica la libertà di parlare ed ascoltarsi con franchezza e senza pregiudizi.
Non siamo di fronte ad un concetto scontato, vivendo noi in un mainstream culturale che, da un lato difficilmente accetta l’esistenza di una Verità che ci trascende, dall’altro tende ad incoraggiare lo scontro, spesso brutale e verboso, tra le tante verità soggettive, facendo vincere chi sa esprimersi in modo più brillante e suasivo, a scapito dell’oggettività imparziale. Sorge allora un interrogativo più che mai legittimo: il rispetto dell’ottavo comandamento, dovrebbe indurre i cristiani a dire la verità sempre, finanche a costo di risultare infantili e imbarazzanti?
Se è vero che, da un lato, se non torniamo bambini non conquisteremo il Regno dei Cieli (cfr Mt 18,3), dall’altro, la nostra sete di Verità non potrà mai essere piegata ai nostri capricci. C’è anche chi si esprime con schiettezza (e lo rimarca, quasi rinfacciandolo…) ma, spesso e volentieri, lo fa, perché ha un interesse più o meno grande a mettere in difficoltà il suo interlocutore. Ben altro spessore era quello dei nostri martiri, specie nel cristianesimo primigenio, quando gridavano la Verità in chiave profetica, per il bene del mondo, mettendo a repentaglio la propria incolumità. Il primo e più emblematico esempio è quello di San Giovanni Battista che ricorda ad Erode una sacra ovvietà: l’adulterio è un peccato grave (cfr Mt 14,4; Mc 6,18).
Giovanni paga il prezzo della sua stessa vita, perché ribadendo un semplice principio di fede e di morale, ha infastidito un potente della sua epoca, relativista, corrotto e prevaricatore, né più, né meno come i potenti attuali.
Gesù Cristo stesso, paga anch’egli il prezzo della sua stessa vita e in modo più impressionante e ignominioso degli altri, perché egli stesso è la Verità personificata: quando Pilato gli domanda cosa sia effettivamente questa Verità, Gesù, già agonizzante tace (cfr Gv 18,38), perché la sua condizione di Verità incarnata e ferita è ben più eloquente di qualsiasi parola.
Dire la verità, certo, e quando è difficile essere esatti e obiettivi, cercare sempre di essere veritieri. Dire la verità, con lo stile e le parole giuste, per il bene di tutti, dirla anche quanto non ci conviene, dirla senza enfasi quando parla da sola, “gridarla dai tetti”, quando tutti si ostinano a negarla. Eppure, in certe circostanze, essa va taciuta (beninteso, mai manipolata o edulcorata), in particolare, di fronte a chi ancora non ha gli strumenti per capirla e, più che di parole, ha bisogno di evidenze e segni.
Più che mai lontano da curialismi affettati e formalismi farisaici, il cristiano è incentivato a dire ciò che pensa, in primo luogo, perché, prima ancora che enunciare la Verità, è propenso a viverla, proprio come hanno fatto Gesù, Maria e i santi. Nel Vangelo, non c’è alcuna frase in cui il Signore, nemmeno nel linguaggio dei suoi tempi, usi espressioni banali del tipo “secondo me” o “preferisco dirvi le cose in faccia”. Tutto ciò che Gesù afferma o manifesta non è il prodotto della sua opinione ma è rivelato o proviene dal Padre.
Il cristiano non ha paura di essere autentico, di parlare “sì sì, no no” (Mt 5,37), in primo luogo, perché sa che la Verità lo trascende e ne è posseduto senza possederla (Cfr Lumen fidei, 34). Nel suo essere franco e non ambiguo, non deve avere paura di incorrere in giudizi errati, proprio perché l’ammissione di aver sbagliato non sarà mai un disonore ma un atto di grandezza. Ciò che lo differenzia dai pagani è la sua assenza di retorica nel proporre la Verità, in primo luogo perché la mette in pratica e la offre, con il suo esempio di vita. Se egli sta nel mondo, senza essere del mondo ed ama tutti, a partire da chi è diverso da lui, non ha nulla da temere, tantomeno l’opinione contraria degli altri, come eterno segno di contraddizione.