Cina e Vaticano: i nodi vengono al pettine?

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Prima o poi doveva capitare. Le parole di papa Francesco a difesa degli Uiguri hanno fatto irritare il governo cinese, offuscando un idillio tra Pechino e Vaticano che durava da almeno due anni. Nel suo nuovo libro Ritorniamo a sognare (Piemme), realizzato assieme ad Austen Ivereigh, il Pontefice traccia un nutrito elenco di popoli perseguitati a causa della fede. Francesco menziona i cristiani “in Egitto e in Pakistan, uccisi dalle bombe esplose mentre pregavano in chiesa”, gli Yazidi del Kurdistan iracheno ed etnie musulmane come i Rohingya birmani e gli Uiguri cinesi. Questi ultimi sono tra le principali vittime del regime comunista. Circa un milione di uiguri, secondo varie organizzazioni per i diritti umani, si troverebbero internati in campi di lavoro e rieducazione, e lì sottoposti a indottrinamento e torture. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Zhao LLijian, è prontamente intervenuto, definendo “totalmente senza fondamento” le dichiarazioni di Bergoglio e puntualizzando che il suo governo “protegge le minoranze etniche in base alla legge”. Secondo le autorità cinesi, poi, gli Uiguri non sarebbero sottoposti a lavori forzati ma semplicemente coinvolti in corsi di formazione professionale, presso appositi centri.

È singolare – ma non troppo – che il Papa non faccia riferimento ai cristiani cinesi. Per quale motivo, si domanderanno taluni, il Santo Padre non cita espressamente i figli della sua Chiesa, che, nella terra del dragone, com’è noto, non se la passano troppo bene? I motivi sono altamente complessi e delicati ma è evidente che, alla base di tutto, vi sia il recente rinnovo dell’accordo provvisorio tra Cina e Santa Sede, per cui Pechino autorizza la nomina di vescovi appartenenti alla storica associazione patriottica, una chiesa scismatica nata sotto il maoismo, non riconosciuta dal Vaticano e sottomessa al regime. La volontà di ricucire lo scisma ha indotto il Papa, il cardinale Pietro Parolin e l’intera Segreteria di Stato a sposare la linea della prudenza e dell’ostpolitik. Evitando così di portare allo scoperto tutti i dossier più scottanti sulla persecuzione dei cattolici in Cina che, negli ultimi anni, nonostante l’accordo, hanno visto restringersi la loro libertà di culto e di evangelizzazione. Il silenzio diplomatico della Santa Sede non riguarda solamente questioni interne alla Chiesa di Roma, tanto è vero che Francesco, in quasi otto anni di pontificato, non ha mai incontrato il Dalai Lama, che pure si è sempre dichiarato suo grande estimatore.

Interrogarsi sui delicati rapporti tra Cina e Vaticano non è peregrino. Al giorno d’oggi, il fulcro dei destini del mondo è in estremo Oriente. Nel bene o nel male, tanto sul fronte economico quanto su quello sanitario o tecnologico, la Cina detiene ormai il primato globale. Si pensi al Covid-19: pur avendo responsabilità gravissime nella diffusione incontrollata del virus, la Cina è il paese che ne è uscito per primo e questo la pone in pole position nella ricostruzione post-pandemica, laddove buona parte dell’Europa e delle Americhe arrancano. Anche l’elezione a presidente USA di Joe Biden segna un punto a favore di Pechino: la fine del quadriennio trumpiano segnerà il ritorno al multilateralismo, pertanto dalla probabile archiviazione della breve stagione protezionista, a guadagnarci saranno più i cinesi degli occidentali. In particolar modo in Italia, l’inevitabile fallimento di molte piccole e medie imprese lascia presagire una penetrazione sempre più pervasiva del mercato cinese, già forte degli accordi commerciali impressi dalla Via della Seta. Al tempo stesso, certi modelli antropologici che arrivano dall’Asia sembrano destinati ad essere assorbiti in Occidente. Si pensi alla tracciabilità digitale, ma soprattutto al Sistema di Credito Sociale che, grazie alle tecnologie per l’analisi dei big data, permette di monitorare i comportamenti dei cittadini e valutarne l’onestà, il senso civico e il livello di integrazione sociale: un approccio sicuramente assai poco occidentale e poco rispettoso della privacy, che, tuttavia, complice la psicosi generata dall’emergenza sanitaria, c’è da scommettere che guadagnerà consensi anche in Italia e in Europa.

Dinnanzi a tutti i cambiamenti fin qui elencati, la Chiesa Cattolica non può stare a guardare e, presto o tardi, sarà chiamata a prendere una posizione forte. Se interloquire con la Cina è indubbiamente una scelta obbligata, marcare le differenze che contraddistinguono il modello cristiano è altrettanto doveroso. Con buona pace di quegli uomini di Curia che, in modo piuttosto discutibile, considerano il modello economico cinese come il più compatibile con la dottrina sociale cattolica. Rinnovando l’accordo con il governo cinese per le nomine episcopali (al momento sono almeno sette i vescovi dell’ex associazione patriottica riabilitati e reintegrati dal Papa), il Vaticano ha scelto Pechino come interlocutore principale e, alla luce di ciò, si spiegano decisioni “impopolari” quali il rifiuto del Papa di ricevere figure come il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, che aveva denunciato le violazioni della libertà religiosa in Cina, o l’88enne cardinale Joseph Zen, che, in qualità di vescovo emerito di Hong Kong, avrebbe voluto confrontarsi con il Vescovo di Roma sugli stessi temi.

Con la dichiarazione sugli Uiguri, indubbiamente, Francesco ha marcato un piccolo cambio di passo, sparigliando le carte in tavola e spiazzando tutti gli attori coinvolti. Certo, quantomeno nel breve-medio termine, non sarà questa uscita a compromettere l’accordo appena rinnovato e, in generale, le relazioni diplomatiche tra Vaticano e Cina. È come se il Papa, “gesuiticamente”, abbia voluto sorprendere Pechino, ponendosi a difesa di un gruppo etnico-sociale che, almeno sulla carta, non dovrebbe essere in cima alle sue priorità come capo della Chiesa di Roma. Una mossa che i pur scaltri diplomatici cinesi faranno fatica a comprendere, nella misura in cui il loro governo è da sempre molto esplicito nel rivendicare i propri interessi. Le parole del Papa nel suo libro-intervista con Austen Ivereigh potrebbero allora essere interpretate come un messaggio cifrato alla Cina (che nel contesto del libro non viene nemmeno nominata), affinché anche sulle violazioni della libertà dei cristiani inizi a fare un passo indietro. Anche perché, prima o poi, i nodi verranno al pettine.