Don Giussani: quindici anni in Cielo e una presenza più che mai viva
Se c’è un personaggio tanto degno di essere celebrato e ricordato quanto difficile da raccontare, quel personaggio è il Servo di Dio don Luigi Giussani (1922-2005). Nel quindicesimo anniversario della sua nascita al Cielo, tuttavia, vale la pena correre questo rischio, quantomeno per trasmettere al mondo almeno un briciolo della gioia di chi ha visto la sua vita radicalmente trasformata dall’incontro con questo grande testimone del suo tempo. Raccontarlo non è facile, perché la vita di don Giussani è come le scatole cinesi: ogni episodio o discorso rimandano quasi sempre a un altro e spalancano la porta sulle praterie sconfinate delle domande sull’esistenza, dove i dubbi e le certezze si fanno costantemente il controcanto reciproco.
Volendo trovare un punto di partenza nel tracciare l’identikit di don Giussani, lo troviamo senz’altro nella sua vocazione alla santità e nel modo in cui egli vi rispose. Una vocazione al sacerdozio precocissima, maturata intorno ai nove anni, in una terra, la Brianza, ai tempi fortissimamente cattolica. Eppure, non tutto fu facile. Cresciuto in una famiglia di umile estrazione, Giussani fu educato cristianamente dalla madre, mentre il padre, di idee socialiste, si convertì quando il figlio fece ingresso in seminario. È proprio in seminario che Giussani, da studente ginnasiale, visse la prima grande crisi esistenziale della sua intensa vita. In questa fase si appassionò in modo particolare all’opera di Giacomo Leopardi, imparandone a memoria tutte le liriche, poi, intorno ai sedici anni, scoprì “una chiave di lettura” per questo autore, facendone il “compagno più suggestivo” del proprio itinerario religioso. Giussani trovò in modo particolare un punto di contatto significativo tra l’incarnazione del Verbo di Dio (cfr Gv 1,14-18) – per cui, commentava il Servo di Dio, “la bellezza s’è fatta carne, la bontà s’è fatta carne, la giustizia s’è fatta carne, l’amore, la vita, la verità s’è fatta carne: l’essere non sta in un iperuranio platonico, si è fatto carne, è uno tra noi” – e l’inno Alla sua donna, in cui Leopardi esprimeva, a modo proprio “una mendicanza di quell’avvenimento che era già accaduto, di cui san Giovanni dava l’annuncio: “Il Verbo si è fatto carne”.
Questa inquietudine tornò a manifestarsi quando don Giussani, all’età di 32 anni, chiese al cardinale Idelfonso Schuster, allora arcivescovo di Milano, di essere rimosso dall’incarico di docente al Seminario di Venegono, per venire indirizzato all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Gli fu così assegnata una cattedra presso il liceo statale Berchet di Milano. Apparentemente una diminutio, che, però, ben rivelava la radicalità delle scelte del giovane sacerdote brianzolo e l’esigenza di mettere sempre Cristo al primo posto. Cos’è che spinse don Giussani a dedicarsi anima e corpo ai giovani e affrontare quello che lui chiamava il “rischio educativo”? Si trattò senz’altro di una ‘vocazione nella vocazione’, fortemente intrisa di profezia. Nell’Italia dei primi anni ’50, con lungimiranza, don Giussani aveva ben compreso che i modelli di trasmissione della fede ai ragazzi erano ormai vetusti e che il Paese stava imboccando in maniera inesorabile la via della secolarizzazione di massa. Tutto nacque il giorno in cui, in treno, si ritrovò a viaggiare con un gruppo di studenti dai cui discorsi spiccava un’“ostilità al fatto religioso” che, a suo avviso, “derivava molto più dall’ignoranza che dalla cattiveria”. Giussani comprese dunque la necessità che qualcuno spiegasse a quei ragazzi i contenuti della fede, secondo “ragionevolezza”, ovvero, in una maniera “che corrisponde alle esigenze originarie dell’umana natura”. L’umanità diveniva sempre più complessa e non si poteva pretendere di continuare a parlare di Gesù Cristo nei termini e nei linguaggi che erano stati in uso fino ad allora. In questo, Giussani anticipò di alcuni anni, le intuizioni rinnovative del Concilio Vaticano II.
Optò quindi la scuola pubblica, perché, in quel contesto, avrebbe trovato un ambiente più corrispondente alla media della gioventù del suo tempo. In qualità di insegnante, il Servo di Dio a volte ‘scandalizzava’ i suoi allievi, ponendo domande per quell’epoca decisamente scomode, del tipo: “Ma tu ci credi veramente in Dio?”; oppure: “Secondo te, c’è veramente il cristianesimo in questa scuola?”. Si racconta che, nei primi anni ’50, davanti alla porta della canonica di una parrocchia milanese, don Giussani si rivolse a una giovane coppia di innamorati, che si stavano baciando sotto i tigli. Una scena forse sconveniente per la mentalità di quei tempi ma il Servo di Dio, per nulla imbarazzato, domandò a quei ragazzi: “Cosa c’entra quello che fate con le stelle?”. Era il suo modo per chiedere: “Che relazione hanno i vostri atti con il destino?”. La radicalità del cristianesimo di Giussani si può sintetizzare in questa sua frase: “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. Don Giussani non si accontentava di essere lui stesso in perenne ricerca ma ai suoi allievi diceva: “Auguro a voi e a me di non stare mai tranquilli, mai più tranquilli”.