Imparando a vivere la sofferenza, si comprende meglio la vita e anche il Vangelo. Una splendida testimonianza, in tal senso, arriva da don Luigi Epicoco, teologo e divulgatore spirituale dotato di una rara capacità: far leggere in controluce nei suoi scritti, anche accademici, la straordinarietà della vita comune. Nel caso di don Epicoco, preside dell’Istituto Superiore Scienze Religiose Fides et Ratio Issr dell’Aquila ed editorialista dell’Osservatore Romano, l’esperienza spartiacque fu il terremoto nel capoluogo abruzzese, nel quale morirono alcuni studenti che lui stesso aveva conosciuto in qualità di cappellano universitario.
Questa riflessione teologico-esperienziale ha fatto recentemente tappa a Bologna, dove presso la chiesa di Santa Teresa, don Epicoco ha tenuto una conferenza, che ha visto anche la partecipazione del cardinale arcivescovo Matteo Maria Zuppi.
La conferenza ha sviluppato la tematica della sofferenza, approfondita nell’ultimo libro del sacerdote salentino, La luce in fondo, un’intensa riflessione sulle difficoltà e sull’elaborazione del lutto, l’esperienza del dolore e della morte che ci ha fatto vivere la pandemia e la relativa risalita.
Secondo don Luigi, “la più grande tragedia nella vita di un persona è quando le tragedie che vive non lo cambiano”, quando “non si lascia scalfire dal dolore”. L’errore più grande di questo tempo segnato dal coronavirus è che la gente desidera tornare alla normalità senza elaborare un tempo duro, caratterizzato dalla morte e dalla sofferenza, che spesso non tira fuori il meglio di noi ma il peggio, incattivisce le persone.
“Noi cambiamo continuamente”, prosegue Epicoco, “la sofferenza interrompe il corso della nostra storia, facendoci parlare di un prima e di un dopo. Credo – ha aggiunto – che, malgrado la durezza della sofferenza, c’è sempre una lettura positiva nella tragedia. Le persone, dopo la tragedia devono rinunciare al loro delirio di onnipotenza, l’idea che noi possiamo sempre fare tutto o tenere sotto controllo tutto, una relazione sbagliata con la vita, con gli altri, con noi stessi, legata al fatto che pensiamo che ogni cosa ci sia dovuta, automaticamente realizzabile. L’illusione della società tecnologica è quella di poter tenere sotto controllo tutto: un minuscolo virus ci ha fatto capire quanto noi fossimo fragili e pieni di limiti”.
Ammettere di avere un limite, di avere bisogno di contatto e di relazione con gli altri, è uno degli aspetti cruciali che la pandemia ci ha offerto: “una grande lezione sulle nostre fragilità e sui nostri veri bisogni – ha detto Epicoco –. L’esperienza biblica della Torre di Babele ci mostra come la pianificazione a tavolino, l’organizzazione perfetta e omologata, si dissolvono nella dispersione più completa”.
“La sofferenza non deve essere l’ultima parola”, ha continuato don Luigi “dobbiamo esprimere la nostra sofferenza: abbiamo diritto a soffrire, a riscoprire un tempo per elaborare il nostro lutto. Dice un Salmo «l’uomo nella prosperità non comprende» (Sal 48,13), la sofferenza crea riflessione. Quando una persona soffre, comincia a capire meglio il Vangelo. Quando ho vissuto l’esperienza del terremoto ho compreso le pause del Vangelo, quello che il Vangelo non dice; chi è sopravvissuto sente potente dentro di sé la responsabilità di non sprecare quella sua sofferenza ma di trasformarla in qualcosa che porti frutto”.
“La pandemia ci offre una grande lezione di umanizzazione”, ha concluso Epicoco. “Abbiamo riscoperto la nostra debolezza e ci siamo scoperti più umani. Dovremmo rimettere al centro gli anziani: sono chiaramente più fragili e tendiamo a nasconderli. Questo nostro tempo offre un grande inganno, quello di nascondersi nell’indifferenza: non dobbiamo avere paura di affrontare il dolore. Dio non è un’assicurazione ma è qualcuno che rende possibile la nostra vita nel migliore dei modi”.
Servizio a cura di Maria Luisa Spinello