I santi ci insegnano a vivere e a morire

I santi ci insegnano a vivere e a morire

Tutta l’Italia è rimasta particolarmente scossa dal terrificante omicidio della sedicenne romana #Desirée Mariottini. Sono episodi che colpiscono, inquietano e rattristano anche chi non ne è direttamente coinvolto. In particolare le mamme d’Italia sono rimaste turbate da questo orribile delitto, con il cuore rivolto ai propri figli e al mondo crudele e ostile con cui dovranno fare i conti. Quando la morte e il mistero dell’iniquità si incontrano è come se facessero cortocircuito, rendendo impossibile un giudizio non dettato dalle emozioni. A dire il vero, comunque, la gente comune riesce a commuoversi profondamente anche quando avvengono morti improvvise di persone in ancor giovane età, per malattie, incidenti o calamità naturali. Se un adolescente o una giovane mamma perdono la vita in un sinistro stradale, è abbastanza comune che ai loro funerali, le chiese siano stracolme e vi presenzino anche persone che non conoscevano il defunto.

È davvero curioso. In tempi in cui la mortalità infantile era all’ordine del giorno e in cui le carestie, le epidemie e le guerre erano ben più frequenti di oggi, la morte era accettata con maggiore serenità. Era un fenomeno che accompagnava costantemente la quotidianità di chiunque ed era considerata un naturale passaggio. La fede in Dio e nella vita eterna erano ben più salde di oggi e la maggior parte della popolazione viveva nella certezza che un giorno avrebbe riabbracciato i propri cari defunti. La familiarità con la morte nella cultura popolare era riscontrabile anche a livello simbolico. Si pensi alla tradizione iconico-musicale della danza macabra, con cui nel tardo Medioevo si esorcizzava in modo ironico e grottesco la paura del trapasso. Fino a poco tempo fa, i funerali erano particolarmente partecipati e anche le salme venivano esposte per lungo tempo, perché si potesse omaggiarle. Lo stesso culto delle reliquie dei santi è l’espressione di una paura della morte piuttosto relativa e della fiducia nella resurrezione futura dei nostri corpi, al momento del Giudizio Universale.

Al giorno d’oggi, invece, la morte è oggetto di una clamorosa rimozione dall’inconscio collettivo. A molti bambini, per non turbarli, non viene fatto vedere il corpo senza vita dei nonni o di altri parenti. Anche l’usanza della cremazione e, soprattutto, della dispersione delle ceneri testimonia probabilmente l’inconsapevole desiderio di cancellare, assieme al trauma della morte di un proprio caro, persino la memoria stessa di quella persona, mentre, al contrario, la presenza di una tomba, sollecita a ricordare il proprio caro perduto anche in positivo; ci fa pensare a quanto la sua vicinanza abbia riempito la nostra vita, al tesoro prezioso che ci ha lasciato e che continueremo a custodire.

Nel suo preziosissimo saggio Farcela con la morte (Cittadella Editrice, Assisi, 2009), il filosofo francese Fabrice Hadjadj fa notare come, “paradossalmente una società che fugge dinnanzi alla morte, non può che costruire una cultura della morte, mentre una società che la accetta, genera una cultura della vita”.