I santi ci insegnano a vivere e a morire
Nulla di più vero: non solo i giornali, la televisione, il cinema e i siti web sono traboccanti di opere e immagini macabre, con forte risalto a notizie come quella dei giorni scorsi a San Lorenzo, ma anche i nostri ordinamenti giuridici sono sempre più impregnati della suddetta “cultura della morte”. Si pensi alla recente controversia sul suicidio assistito, approdata senza esito alla Corte Costituzionale. La paura dell’infermità e della disabilità induce, a seguito di diagnosi prenatale, a sopprimere i piccoli malati nel grembo oppure addirittura già in vita, come dispone la legge belga sull’eutanasia infantile o come hanno stabilito i tribunali britannici, sentenziando la morte di bambini innocenti come Charlie Gard o Alfie Evans. Quando si banalizza il senso della morte, anche la dignità della vita viene più facilmente calpestata, come testimoniano i destini diversi ma ugualmente tristi di Charlie e Alfie, di Desirée, delle migliaia di migranti lasciati naufragare nel Mediterraneo, degli abitanti di Aleppo o del Sud Sudan, dei troppi ragazzi cui viene venduta droga in discoteche e luoghi similari, dei loro coetanei che si suicidano per mancanza di lavoro.
In totale controtendenza rispetto alla cultura della morte, ci sono le vite dei santi. Nell’inferno di Auschwitz, San Massimiliano Kolbe (1884-1941) offrì la propria in cambio di quella di un padre di famiglia. La Serva di Dio Chiara Corbella Petrillo (1984-2012) scelse di far nascere due figli gravemente malati, destinati a morire poco dopo il parto, e non si pentì mai di questa scelta, così come non si pentì di aver rimandato le cure del suo tumore, pur di far nascere il terzo figlio. Quando ormai Chiara era agonizzante, il marito Enrico continuava a sussurrarle: “Sei bellissima”. E lei, con lui, a ripetere quelle parole, fino all’ultimo sospiro. Anche nell’immane sofferenza finale di lei, questa coppia aveva imparato ad accogliere la croce come fonte di grazia. Quattro ore prima dell’addio, lui le aveva chiesto: “Amore mio, ma davvero il giogo del Signore è dolce?”. E Chiara, con un fil di voce ma sorridendo, gli rispose: “Sì, Enrico, molto dolce”. È così che dovrebbe morire ogni cristiano.
Prima ancora, nell’ultima parte della sua intensissima e indimenticabile vita, il più grande santo del secolo scorso, Giovanni Paolo II, ha impartito all’umanità la più grande e sublime lezione sulla morte. Lui che aveva percorso in lungo e in largo il mondo per portare ovunque la speranza della Parola di Dio, negli ultimi tre anni non camminava più. Lui che aveva avuto il dono dell’abilità oratoria, che sapeva cesellare ogni parola incantando i fedeli con la forza carismatica dei suoi discorsi e omelie, negli ultimi mesi era ormai quasi incapace di parlare. Lui che era l’emblema del dinamismo, che aveva praticato sport finanche nella vecchiaia, dopo gli ottant’anni era costretto all’immobilità. Lui che, attraverso l’enciclica Evangelium vitae ma soprattutto con i suoi gesti e la sua presenza, aveva celebrato la bellezza della vita, al tramonto dei suoi giorni, con la malattia che ogni giorno lentamente lo spegneva, ha insegnato a tutti l’“arte” di congedarsi da questo mondo. Senza nascondere nulla della sofferenza ma con la dignità di chi sente di aver ricevuto molto e molto vuole donare. Fino all’ultimo istante.