IL BICENTENARIO / Dostoevskij: dal “sottosuolo” alla redenzione

Fëdor Dostoevskij
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Il 2021 è un anno di illustri anniversari letterari. Dopo il settimo centenario di Dante, si è celebrato in questi giorni il bicentenario di Fëdor Dostoevskij (1821-1881). Difficile trovare un autore le cui opere rispecchino tanto fedelmente la vita e, in questo caso, la spiritualità. Se si prendono anche solo pochi episodi biografici del grande scrittore russo, sorge spontaneo dire che quella vita è stata il più straordinario romanzo che avrebbe mai potuto scrivere. Un romanzo particolarmente drammatico e doloroso per quasi tutta la sua durata.

Ha detto qualche anno fa Alessandro D’Avenia: “Non si diventa Dostoevskij, se non si sono fatti cinque anni di lavori forzati in Siberia. Non si diventa Dostoevskij, se non perdi la tua prima moglie. Non si diventa Dostoevskij, se non ti muore la prima figlia a tre mesi. Non si diventa Dostoevskij, se non trovi una seconda moglie che quando tu torni a casa, avendo dilapidato tutto nel gioco d’azzardo, ti dà altri soldi e ti dice che ti ama lo stesso”. La vita di Dostoevskij, spiegò in quell’occasione lo scrittore siciliano agli studenti del Politecnico di Milano, è una continua giustapposizione di “inferno e paradiso”, di “miseria e altezza”.

Dostoevskij è uno degli scrittori più cristianamente ispirati della storia, per la sua capacità di accendere luci anche nelle tenebre più nere di ogni “sottosuolo” esistenziale. Ci sono talenti che sorgono innati ma c’è da scommettere che Dostoevskij non avrebbe mai tirato fuori i suoi capolavori più belli, se non avesse attraversato così tante valli oscure. Veder morire a 18 anni, il proprio padre autoritario, alcolista e violento ucciso dai contadini del terreno di sua proprietà, fu verosimilmente l’episodio che scatenò in Dostoevskij i primi dissidi interiori e l’attitudine all’autoanalisi che emergono in tutta la loro forza in Memorie del sottosuolo e, soprattutto, in Delitto e castigo.

Una delle cifre dominanti nella vita e nelle opere di Dostoevskij è il senso d’estraneità alla propria epoca, tipica di un po’ tutte le personalità geniali. Una ribellione al mondo che si concretizza dapprima con l’abbandono di una promettente carriera militare, per dedicarsi integralmente alla narrativa: scelta “suicida” per un uomo, oltretutto di salute cagionevole e scarsamente abile nel gestire il denaro. Altro aspetto rilevante della gioventù di Dostoevskij è la sua vicinanza ad ambienti sovversivi, in un’epoca in cui le ideologie socialiste erano agli albori.

Quando nel 1849, viene condannato a morte e poi – un minuto prima dell’esecuzione – graziato dallo zar Nicola I, Dostoevskij vive la sua conversione religiosa. Ha percepito dolorosamente l’erroneità della sua condotta e, al tempo stesso, la necessità di espiare il male fatto. Anche per questo, lo scrittore accetta con relativa condiscendenza la deportazione in Siberia. Per cinque anni, tutta la vita di Dostoevskij è spaccare ghiaccio e leggere il Vangelo. Privato dei suoi amati libri, scopre il Libro. Gli anni dei lavori forzati rappresentano il momento spartiacque di una vita che gli avrebbe riservato amarezze e sofferenze fino all’ultimo.

Negli ultimi due secoli, nessuno scrittore ha descritto tanto bene quanto Dostoevskij la sovrapposizione tra il conflitto interiore con i propri limiti personali – dall’epilessia alla ludopatia – e il conflitto con le sciagure esteriori, dalla perenne mancanza di denaro ai terribili lutti patiti. Il mistero della sofferenza degli innocenti ricopre una parte centrale della sua opera conclusiva. Ne I Fratelli Karamazov, Dostoevskij mette in scena il drammatico confronto tra il monaco Alëša e suo fratello Ivan, il quale, da ateo, afferma: “Se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto”.

In Dostoevskij, il nichilista e il mistico convivono costantemente e agonisticamente. Lo scrittore russo rifugge la banalizzazione moralista della borghesia europea ottocentesca. Ha una sensibilità esagerata nei confronti del male e della corruzione (non a caso gran parte delle sue opere narrano di omicidi, delitti e processi) ma è consapevole di non poter ridurre il mysterium iniquitatis a una pura questione di giustizia. Anche per questo, dopo la prigionia, Dostoevskij aveva preso le distanze dai movimenti anarchici e socialisti ben rappresentati ne I demoni. A differenza del suo conterraneo e contemporaneo Lev Tolstoj (1828-1910), percepisce come riduttiva l’idea del cristianesimo come fattore di emancipazione sociale. In Dostoevskij è tanto forte la consapevolezza della natura peccaminosa dell’uomo, del putridume in cui le anime sono immerse, da considerare imprescindibile il contatto con un Dio personale, senza il cui abbraccio è impossibile redimersi.

Il Gesù di Dostoevskij è un Gesù talmente incarnato e umano da portarlo ad un paradosso che si riallaccia alla precedente citazione dai Karamazov: “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità” (cit. Lettera a Natalija Dmitrievna Fonvizina). È l’amore, quindi, che precede il logos e gli dà senso. È lo stesso amore puro, assoluto, quasi divino, che spinge il principe Myškin, protagonista de L’idiota, a bene-dire una donna ambiziosa, corrotta e sensuale come Nastàs’ja Filìppovna: vuol preservarle quella dignità, che lei ha svenduto, facendosi manipolare da uomini che la usano e la dominano. Nastàs’ja vorrebbe corrispondere all’amore di Myškin ma ne rimane intimamente spaventata, non sentendosi all’altezza di un’anima così nobile e, così facendo, ricade nella sua vita dissoluta.

Non la morale, non la legge salvano l’uomo dall’abisso del male in cui è immerso ma l’amore, che si trasfigura nella bellezza. Sempre ne L’idiota, è posto il celebre interrogativo: “Quale bellezza salverà il mondo?”. In questa riflessione, tuttavia, Dostoevskij va oltre e, ne I demoni, scrive: “L’umanità può vivere senza la scienza E può vivere senza pane. Soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più niente da fare al mondo! La scienza stessa non resisterebbe un minuto senza la bellezza”. Una tremenda spina nel fianco della fredda mentalità scientolatrica e moralista di questi anni.

Concludiamo con un cenno al vero capolavoro dostoevskiano, quasi un “romanzo nel romanzo”: il capitolo del Grande Inquisitore, incluso ne I Fratelli Karamazov e citato, oltretutto, da papa Francesco in una sua recente omelia. L’autore immagina Cristo ritornato sulla terra nella Siviglia del XVI secolo, all’epoca, per l’appunto, dell’Inquisizione spagnola. Pur avendo resuscitato una bambina di sette anni, Gesù viene fatto arrestare con un capo d’accusa incredibile: aver voluto portare la libertà tra gli uomini. L’anziano Inquisitore che lo affronta è il simbolo di una Chiesa istituzionalizzata, che ha sovvertito il precetto: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Mt 4,4). A processare di nuovo Gesù è la Chiesa che ha venduto la libertà degli uomini, in cambio della loro felicità materiale e della sottomissione gerarchico-clericale. Un passo che descrive alla perfezione il travaglio della Chiesa di oggi, così drammaticamente sospesa tra nuovi fariseismi e la sua definitiva conversione spirituale.