Omosessualità: le terapie riparative? Non implicano alcuna “conversione”…

Nella galassia lgbt è sempre grande lo spauracchio per la “terapie riparative”. Note nel mondo anglosassone con il nome di “conversion therapy”, queste pratiche, a detta degli attivisti arcobaleno, consisterebbero in una serie di pressioni e suggestioni con cui lo psicoterapeuta indurrebbe il paziente omosessuale a cambiare il proprio orientamento affettivo, diventando (o tornando) etero.

A livello internazionale, l’ultima istituzione di rilievo che ha messo al bando le terapie riparative è lo stato australiano di Victoria. Secondo il premier Daniel Andrews, si tratterebbe di una pratica “dannosa” e “crudele”, una vera e propria “forma di tortura”, sostenuta dall’“idea che le persone LGBTI siano in qualche modo ferite”. Negli USA sono già una quindicina gli stati che le hanno vietate.

E in Italia? Da noi, le terapie riparative non sono prese in considerazione dall’ordine nazionale degli psicologi, che non ha mancato di infliggere sanzioni contro gli specialisti che le praticano. Vi sono associazioni e onlus, la più nota delle quali è Courage, che offrono un aiuto per lo più spirituale alle persone omosessuali, senza però prevedere alcun tipo di terapia in senso stretto, né tantomeno imponendo alcuna conversione. L’operato di questi soggetti viene però sovente confuso con le terapie riparative propriamente dette.

La questione era stata sollevata durante la scorsa legislatura, quando in Senato venne presentata una proposta di legge – mai approvata – per la messa al bando delle teorie riparative; contro di esse, recentemente, è tornato a tuonare l’ex senatore Sergio Lo Giudice, presidente onorario di Arcigay, particolarmente discusso per aver usufruito dell’utero in affitto in America e aver adottato un bambino, nato con questa tecnica, assieme al suo compagno. Secondo Lo Giudice, si tratterebbe di terapie “inutili” e “dannose” che, a suo dire, determinerebbero “perdita di autostima” e sensi di colpa in chi le riceve.

Esaurite le premesse cronachistiche e smessi i paraocchi ideologici, è opportuno andare a scoprire cosa sono davvero le teorie riparative. A lanciarle per la prima volta, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, è stato il dottor Joseph Nicolosi (1947-2017). Lo psicologo italo-americano, fondatore della National Association for Research and Therapy of Homosexuality, iniziò a lavorare sulla riconciliazione dei suoi pazienti con la figura paterna, solitamente decisiva nella costruzione dell’identità sessuale dei figli maschi. Secondo l’approccio di Nicolosi, l’orientamento sessuale verso lo stesso sesso è un indice della difficoltà che un soggetto ha incontrato, anche prima della pubertà, nella relazione identificatoria con il padre. Gli omosessuali maschi si trovano spesso a fronteggiare un senso di insicurezza e inadeguatezza verso la propria mascolinità.

Gli psicologi che praticano la terapia riparativa, quindi, rispondono a quei pazienti che si rivolgono a loro, rivelando la propria egodistonia, ovvero un palese disagio nei confronti delle loro pulsioni omosessuali. Le scelte successive in merito alla propria vita affettiva, tuttavia, sono solo ed esclusivamente frutto della volontà del paziente. Il terapeuta si limita ad affrontarne il disagio e a consigliare il paziente che poi decide in piena e consapevole libertà. Non si tratta, quindi, di “convertire” alcuna tendenza affettivo-sessuale ma di rielaborare la propria storia, fare i conti con la propria intimità e individuare le cause dei propri malesseri o nevrosi.

Per quale motivo, allora, le terapie riparative mandano nel panico l’associazionismo lgbt e i militanti gay? La ragione è molto semplice: queste prassi hanno messo in discussione quel dogma della filosofia arcobaleno, secondo il quale omosessuali si nasce. Non c’è alcun assunto scientifico, però, che provi questa affermazione e, comunque, la sola idea che uno psicologo possa prospettare a un omosessuale l’eventualità di poter essere felice con un orientamento affettivo differente, fa venire l’orticaria ad alcuni. La ‘minoranza rumorosa’ dei paladini delle cause lgbt ha determinato un clima teso e intimidatorio che sta inibendo qualunque legittimo dibattito nelle comunità accademiche. Siamo di fronte a un vero e proprio oscurantismo antiscientifico che induce la maggior parte degli psicologi e degli psicoterapeuti a non praticare, per quieto vivere, terapie in grado di mettere in discussione il pensiero unico dominante.

Le lobby lgbt hanno bisogno di portare a realizzazione i loro obiettivi finali che sono, in definitiva, lo sdoganamento del matrimonio e dell’adozione per le coppie omosessuali e dell’esecrabile business dell’utero in affitto. Per quest’ultima pratica, recentemente condannata dalla Corte Costituzionale, è in arrivo, in Senato, una nuova proposta di legge che inasprisce le sanzioni già esistenti per chi ne fa utilizzo. La propaganda gender a scuola è la principale modalità di indottrinamento con cui le suddette lobby intendono consolidare tali obiettivi. Per far sì che la ‘famiglia arcobaleno’ diventi una realtà diffusa e accettata, c’è bisogno che, nell’immediato futuro, vi siano sempre più omosessuali, bisex, transessuali, ecc. Uno strumento per la realizzazione di tale inquietante piano è sicuramente la contaminazione dei programmi educativi. Le teorie riparative, allora, comunque le si intenda, rischiano di essere una spina nel fianco di un indottrinamento per il quale gli lgbt non vorrebbero alcuna limitazione.

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Per approfondimenti: https://www.notizieprovita.it/notizie-dallitalia/gay-parla-lo-psicologo-g-ricci-terapie-riparative-non-impongono-alcuna-conversione/