Un modo di dire cattolico: l’avvocato del diavolo

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La nostra religione, oltre a condurci a Dio e alla perfetta unione con lui, pervade anche la nostra vita quotidiana e i nostri modi di fare e parlare.

Molte volte abbiamo sentito usare l’espressione “l’avvocato del diavolo”.  Ormai è diventato un modo comune del nostro parlare. Ma cosa è di preciso l’avvocato del diavolo?

L’Advocatus diaboli non è altro che uno dei modi alternativi di chiamare il promotor fidei ovvero il promotore della fede che dal 1587, data della sua istituzione da parte di papa Sisto V, al 1983 data della sua eliminazione da parte di papa San Giovanni Paolo II, si occupava per conto della Chiesa di introdurre nelle cause di canonizzazione degli argomenti ostativi alla concessione del titolo di Santo.

Erroneamente, quindi, si è inteso il lavoro del promotore della fede come quello di un soggetto che accusasse i futuri santi di aver compiuto gravi peccati o di non essere all’altezza della santità.

Il suo compito, invece, è stato per quasi quattrocento anni quello del guardiano della santità che deve essere concessa solo in determinati casi e solo in presenza di alcune chiare ed inequivocabili circostanze.

L’operato dell’promotore non ha mai, dunque, avuto a che fare con le opere del maligno nonostante alcune procedure potessero essere fraintese a chi non era esperto di diritto canonico.

Non un grande accusatore dei futuri santi, ma il loro vero alleato in terra.

Agli inizi degli anni ottanta dello scorso secolo, sotto il meraviglioso pontificato  di Giovanni Paolo II, con la costituzione apostolica Divinus perfectionis magister, il processo delle cause dei santi fu pesantemente riordinato e al promotor fidei fu lasciato solo il compito di redigere, insieme ad altri teologi, le conclusioni sulla relazione la “positio” finale preparata dal relatore della causa.