Uno spettro si aggira per l’Italia: a qualcuno la libertà d’opinione non piace troppo. La disavventura capitata a #RadioRadio domenica scorsa è uno dei casi più clamorosi ma non l’unico. Alle 8:40 del 14 giugno, l’account YouTube della nota emittente radiofonica romana viene sospeso con l’accusa, rivolta in privato all’amministratore, di aver pubblicato un video con “minorenni in situazioni sessualmente allusive” e di non ben precisati “comportamenti predatori”, violando così le norme della community. Un’imputazione assurda, nella misura in cui, come ricordato dall’editore Fabio Duranti, in 42 anni di attività, Radio Radio non ha mai ricevuto querele, né ha mai violato le norme deontologiche della comunicazione. Il giorno seguente, alle 10:29, dopo l’e-mail di ricorso e contestazione da parte dello stesso Duranti, l’account viene ripristinato, con tanto di messaggio rettificatorio: “Il tuo canale non viola le norme della community”. Ventisei ore di oscuramento ma l’episodio è parla da solo ed è gravissimo. È facile pensare che, in maniera subdola e opacissima, Radio Radio sia finita tra le maglie dei censori per le sue posizioni controcorrente rispetto ai media mainstream: si pensi alle opinioni fuori dal coro veicolate durante l’emergenza coronavirus.
Quanto capitato a Radio Radio è soltanto l’ultimo di una lunga serie di campanelli d’allarme intorno alla libertà d’espressione. Decine sono stati i blog e le testate di contro-informazione che, a torto o a ragione, negli ultimi mesi hanno visto oscurati i loro video su YouTube e i loro post sui socialnetwork. Il problema, comunque, è molto più ampio e complesso di quanto si pensi. Dopo decenni all’insegna del “vietato vietare”, determinati gruppi di potere stanno riportando in auge la censura, non in nome di principi universalmente riconosciuti o dei diritti umani, ma del politically correct e di una nuova strana mentalità, per la quale tutto ciò che viene dal passato o dalla tradizione è abietto, da condannare a prescindere e da destinare alla damnatio memoriae. Ne ha fatto le spese, nei giorni scorsi, la statua di Indro Montanelli, imbrattata da sedicenti antifascisti a Milano. È legittimo che le condotte personali di taluni personaggi storici o viventi possano essere riconosciute come discutibili e deprecabili. Ma non si può, soltanto per questo, “gettare il bambino assieme all’acqua sporca”, quindi ogni personaggio pubblico va valutato più per le sue idee e per le sue opere che non per la sua sfera privata. Succede poi che, in nome di un principio giusto come l’antirazzismo, si scada totalmente nel ridicolo, chiedendo la messa al bando di un capolavoro cinematografico come Via col vento o il cambio di nome per un noto prodotto dolciario, in quanto ritenuto allusivamente offensivo verso le etnie africane. Per non parlare dell’ormai non nuova accusa contro Dante, reo di razzismo, antisemitismo e, in particolare, islamofobia per aver collocato Maometto all’Inferno (Inf. XXVIII, 22-63) e quindi meritevole di essere cancellato dai programmi scolastici.
La libertà d’informazione va a braccetto con la libertà di formazione ed è anche per questo che la nostra testata si è schierata a favore delle scuole paritarie che rischiano la chiusura. In questa temperie culturale va ad inserirsi anche il dibattito sul ddl Zan contro l’omotransfobia. Offendere, ingiuriare o discriminare un omosessuale o un transessuale in quanto tali è già un reato punito dal nostro ordinamento ma a qualcuno tutto questo non basta: si pretende che queste categorie di persone diventino meritevoli di una tutela speciale che, se ci si riflette bene, avrebbe l’effetto boomerang di isolarle ulteriormente dal resto della società. Così facendo, essi verrebbero identificati ancora di più con il loro orientamento sessuale, dimenticando che qualunque essere umano è dotato di affettività, di bellezza interiore, di intelligenza e anche di spiritualità e che quindi ridurlo soltanto ai suoi impulsi erotici equivarrebbe ad abbrutirlo e ad animalizzarlo. Il rischio di un tale impoverimento morale e antropologico è stato messo in luce nel suo blog dallo scrittore Giorgio Ponte. Sulla scorta del suo vissuto personale, Ponte ha anche messo in guardia, nel caso le norme anti-omofobia fossero approvate, dalla possibile negazione di un diritto: quello di compiere scelte controcorrente e di riflettere criticamente sulle proprie tendenze omosessuali, senza per questo autoinfliggersi sensi di colpa oppressivi ma, piuttosto, aprendosi al vero amore.
Le anomalie giuridiche del ddl Zan, che presenta risvolti ai limiti dell’anticostituzionalità, sono state rilevate da giuristi come Gianfranco Amato e Antonio Baldassarre, tutti concordi sulla natura liberticida del provvedimento. Anche la Conferenza Episcopale Italiana, in una nota [https://www.chiesacattolica.it/omofobia-non-serve-una-nuova-legge/], ha preso le distanze dal ddl Zan. Il richiamo, però, è arrivato forse troppo tardi e non corroborato dalla quella compattezza che sarebbe stata necessaria in un passaggio così delicato. Nonostante le parole nette e significative di vescovi come monsignor Antonio Suetta, il mondo cattolico, in particolare nella sua componente clericale, si sta mostrando piuttosto diviso e tendente ai distinguo, come dimostra la trattazione un po’ ambigua e cerchiobottista del tema, da parte di una certa stampa. In definitiva, in questa battaglia cruciale per la libertà di tutti, non si ode il grido della Chiesa, che pure avrebbe molto da dire.
Non è una questione etica, né tanto meno moralistica o confessionale. Si tratta di difendere un fondamento della nostra civiltà, la libertà di espressione, principio caro anche ai cristiani. A monte della libertà, tuttavia, vi è un principio ancora più importante: quello della verità, senza la quale la libertà non avrebbe senso; sarebbe una falsa libertà, in nome della quale conterebbe soltanto la legge del più forte e di chi più alza la voce. L’approccio cristiano è esattamente l’opposto: la verità rende “umile” i credenti, “sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede” (Lumen fidei, 34). È la Verità cos’è? Sarebbe meglio dire: Chi è. È la domanda che Pilato pone a Gesù: “Quid est veritas?” (Gv 18,38). Frase che, anagrammata, diventa “Est Vir qui adest” (è l’Uomo che hai davanti). Così è Cristo: Lui stesso è Verità, eppure, per amore dei suoi avversari – e della loro libertà di espressione – accetta di essere processato, deriso, fustigato e infine ucciso. Le opinioni, solitamente, sono chiassose, arroganti, prevaricatrici e spesso bugiarde. Non così la Verità, la quale, anche quando percossa e umiliata, è sempre destinata a trionfare. E a risorgere.