“Io ti invoco e ti cerco / Uomo / In cui la storia umana / Può trovare il suo corpo / Mi muovo incontro a te / Non dico vieni / Semplicemente dico / Sii”. Con questi versi si apre uno dei più celebri componimenti poetici di Karol Wojtyla. Quell’Uomo con la U maiuscola è Gesù Cristo, nel quale tutta la Storia umana ha preso senso, in cui l’umano ha incontrato il divino e ha visto per sempre cambiata la propria sorte. Eppure la Storia cammina anche sulle gambe dei suoi grandi testimoni, dei suoi santi che sono parte integrante del corpo mistico di Cristo, la Chiesa. San Giovanni Paolo II è evidentemente uno di questi, un uomo che abbiamo accolto nelle nostre vite come Papa, riconosciuto – già in vita – come personaggio in grado di cambiare la Storia e, soprattutto, divenuto, alla fine, anche un santo. In ogni generazione, sono davvero pochi i personaggi che racchiudono in sé tutte queste caratteristiche.
In che modo, però, Karol Wojtyla è riuscito a cambiare la Storia e perché è diventato un santo? Tra un paio di giorni ne celebreremo il centenario della sua nascita: 85 anni sulla terra, 15 in Cielo. Un secolo che pare un millennio, se si pensa al tumulto di eventi che l’uomo Giovanni Paolo II ha attraversato ma soprattutto al modo in cui li ha affrontati e rappresentati davanti all’umanità. Se si guarda la vita di Karol Wojtyla con l’occhio dell’uomo moderno e materialista, nessuno avrebbe esitazione nel definirla una vita difficile, finanche triste e drammatica. Non è da tutti perdere la madre a nove anni e l’unico fratello a dodici. Per poi affrontare l’invasione del proprio paese da parte della Wermacht nazista, riparare in un’altra città, portando avanti con molta fatica i propri studi sotto la minaccia dell’esercito occupante. E infine veder morire il padre, unico parente ancora in vita. Fu proprio nell’elaborazione del lutto paterno che, a partire dal febbraio 1941, il 21enne Karol Wojytla, nel momento più tremendo della propria vita e del proprio paese, vide maturare la vocazione sacerdotale, della quale, però, il giovane studente-operaio di Wadowice ebbe evidenza cristallina, soltanto un anno e mezzo dopo. Fu proprio nelle circostanze della solitudine, della povertà e della guerra, che nell’animo di Karol iniziò quello che lui stesso definì “un processo di distacco dai miei progetti precedenti”, a partire da quelli letterari e teatrali. “Il sacerdozio iniziò a profilarsi sempre più imperiosamente come una maniera di vivere opponendo resistenza alla degradazione della dignità umana operata dalla brutalità ideologica” (1), scrive George Weigel nella biografia del Papa.
La storia della vocazione del giovane Wojtyla è complessa e affonda le sue radici negli ultimi anni di liceo, dove più d’uno tra gli insegnanti e i compagni di studi avevano intuito per lui un futuro sacerdotale. Karol respinse l’idea per almeno quattro anni, tuttavia, a metà del 1942, era ormai arrivato ad ammettere che “nei disegni a volte sconcertanti della Provvidenza non ci sono mere coincidenze” e che le tribolazioni vissute in quegli anni non potevano essere “episodi isolati di un’esistenza” bensì erano “cartelli indicatori lungo una strada che portava al sacerdozio” (2). Non stiamo ovviamente parlando di un ‘salto nel vuoto’ ma di una scelta di vita che, per quanto sofferta, germogliava in un’anima in cui lo Spirito Santo aveva seminato abbondantemente per molti anni e ora iniziava a raccoglierne i frutti.
Neanche i successivi sessant’anni della vita di Karol Wojtyla furono facili: da sacerdote e da vescovo, fu costantemente spiato dal KGB; da Papa subì l’attentato per mano di Alì Agca; gli ultimi dieci anni furono segnati da un progressivo e inesorabile declino fisico, che arrivò a togliergli la deambulazione e la parola (davvero toccante per un uomo dinamico che amava lo sport e che impressionava tutti per le doti oratorie). Eppure Giovanni Paolo II – già in vita – passa alla storia come “il Papa della Speranza”. Una Speranza che non si riduceva ad un superficiale ottimismo privo di trascendenza o a un fatalistico “andrà tutto bene” ma che era ben radicata nella certezza di avere al proprio fianco l’Amico più fedele e l’Alleato più forte.
Quella di Karol Wojtyla non fu una vocazione puramente contemplativa o – con rispetto parlando – ‘monastica’. Al contrario, il suo modo di vivere la fede era profondamente incarnato negli stili di vita e nella sensibilità dell’uomo del suo tempo. Al contempo, per lui, fare escursionismo in montagna, andare in canoa o sugli sci, recitare a teatro o scrivere poesie – tutte attività in cui imprimeva un entusiasmo e una gioia incontenibili – aveva senso solamente se fatto con il cuore in Cielo. Wojtyla era un’instancabile cacciatore di bellezza e, a differenza di tanti preti e cristiani ‘da sacrestia’, sapeva perfettamente che la realizzazione di se stessi era nell’uscire dal proprio ego, per guardare costantemente negli occhi dell’altro. Sono incredibili, ad esempio, il realismo e la delicatezza con cui Wojtyla, nel pieno del celibato episcopale, realizza una splendida opera teatrale come La bottega dell’orefice (1960), tutta incentrata sull’amore coniugale cristiano, di cui non trascura i risvolti più spinosi. Altrettanto grandioso e di un’attualità sconvolgente, fu, molti anni dopo, da Papa, il suo ciclo catechetico sulla Teologia del corpo (1979-1984), sull’amore, anche erotico, tra uomo e donna. Tutta la vita di Karol Wojtyla è stata segnata da continui e repentini cambiamenti, che, ogni volta, mettevano fine ai suoi progetti, perché Dio, amandolo tanto, ne aveva sempre di nuovi per lui.
C’è poi da fare una considerazione sul rapporto tra fede e libertà in San Giovanni Paolo II. La Polonia, specie ai tempi della nascita di Karol Wojtyla, era un crocevia di culture, etnie e religioni; anche in precedenza il paese slavo era stato un modello di pacifica coesistenza, persino nei terribili anni dei conflitti catto-protestanti a cavallo tra XVI e XVII secolo. Uno dei migliori amici del futuro papa, nella natìa Wadowice, era il figlio del rabbino locale. Da questo background nasce la spinta al dialogo interreligioso negli anni del pontificato: un dialogo in cui, però, non trovava spazio alcuna forma di sincretismo e in cui la fedeltà a Cristo e al Vangelo era la condizione di partenza. A differenza di altri popoli europei, per i polacchi – e più che mai per un uomo come Karol Wojtyla – la fede non è mai stata vista in contraddizione con la libertà, né con la propria identità patriottica. Al contrario, essa è percepita come elemento che nobilita un popolo, il cui unico obiettivo è vivere pacifico e libero dalle tirannidi, senza opprimere né essere oppressi. La resistenza del popolo polacco a cinquant’anni di dittature – prima nazista, poi comunista – è il frutto del suo totale affidamento a Gesù e a Maria. L’emersione di una figura papale carismatica come quella di Giovanni Paolo II non fece altro che accelerare questo processo di liberazione.
“Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”, raccomandava il Papa nell’estate 2000 ai ragazzi giunti a Roma per la XV Giornata Mondiale della Gioventù. Un capolavoro di bellezza, speranza e libertà, realizzabile, però, soltanto “a quattro mani” tra l’artista e il suo Creatore…
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Note:
1-2) George Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo, Mondadori, 1999, p.87