La morte ci rende tutti uguali

Giorgio Napolitano - Matteo Messina Denaro
Foto: Wikimedia Commons

In quest’anno di cui sono trascorsi soltanto i tre quarti, un gran numero di vip è già passato a miglior vita: sportivi come Gianluca Vialli, personaggi della cultura o della televisione come Maurizio Costanzo, Andrea Purgatori o Michela Murgia, politici come Silvio Berlusconi. La scorsa settimana, è stata la volta di Giorgio Napolitano e di Matteo Messina Denaro. Il presidente e il malvivente. L’inappuntabile uomo di Stato e il mafioso. Nella coscienza collettiva del nostro Paese, lo Stato e la mafia sono sempre stati visti come realtà fortemente contrapposte e non c’è ragione per non vederle come tali.

Uno sguardo sovrannaturale sulla vita e sulla morte, tuttavia, rovescia la prospettiva fin troppo semplicistica della narrazione dominante. Cosicché, se di certo la vita di Messina Denaro in nessun modo potrà essere, né apparire esemplare, per converso, è molto arduo pensare a una “canonizzazione” del presidente emerito. E non ci riferiamo soltanto ad alcune scelte politiche discutibili (due esempi su tutti: il plauso alla repressione sovietica a Budapest, da giovane; la scelta di non firmare il decreto che avrebbe salvato Eluana Englaro, da anziano). Il discorso è molto più profondo.

La realtà dei fatti – giusta o sbagliata che sia – ha mostrato che l’inquietante figura del boss di Cosa Nostra ha ricevuto numerosi attestati di cordoglio sui social, mentre alle esequie dell’ex capo dello Stato, la partecipazione popolare è stata piuttosto tiepida. Come possa aver reagito la gente comune di fronte alla morte di due uomini che, per motivi diversi, hanno fatto la storia del nostro Paese, tuttavia, è secondario dinnanzi al mistero della morte stessa. Le vite degli uomini possono essere tra loro anche molto diverse ma tutte quante sono accomunate dal giudizio di Dio. Davanti a Dio contano certamente le opere compiute e la rettitudine morale ma è in primo luogo imprescindibile la fede in Lui. Non una fede fredda o legata esclusivamente alla Sua esistenza ma una fede inscindibile dall’amore nei Suoi confronti.

Sia nel caso del presidente emerito, sia nel caso del capo di Cosa Nostra, abbiamo di fronte due uomini che, per motivi diversi, hanno rifiutato Dio e la sua Chiesa. Napolitano era un ateo comunista, da sempre avversario, sia pure – formalmente – rispettoso della Chiesa stessa. “Non esito a confessare”, disse Napolitano in un’intervista all’Osservatore Romano nel 2012, “che una delle componenti più belle che hanno caratterizzato la mia esperienza è stato proprio il rapporto con Benedetto XVI. Abbiamo scoperto insieme una grande affinità, abbiamo vissuto un sentimento di grande e reciproco rispetto. Ma c’è di più, qualcosa che ha toccato le nostre corde umane. E io per questo gli sono molto grato. Oggi, per esempio, abbiamo trascorso un momento insieme caratterizzato proprio da tanta semplice umanità. Abbiamo passeggiato, parlato come persone che hanno un rapporto di schietta amicizia, con tutta la deferenza che io ho per lui e per il suo altissimo ministero, per la sua altissima missione. Ci sentiamo in un certo senso vicini, anche perché chiamati a governare delle realtà complesse”.

Anche con papa Francesco, l’ex presidente della Repubblica – nel biennio scarso del suo secondo mandato (2013-2015) – ha intrattenuto rapporti cordiali, tanto è vero che, a sorpresa, il Pontefice ne ha omaggiato il feretro lunedì scorso al Senato. L’episodio senza precedenti di un Papa che offre il suo estremo tributo a un capo di Stato scomparso non fa necessariamente di quest’ultimo un modello di “cristianità” da seguire. Tanto è vero che lo stesso Napolitano, in ossequio al suo ateismo, ha coerentemente rifiutato le esequie religiose. Una scelta che lo accumuna a Matteo Messina Denaro che, bontà sua, poco prima di morire, aveva affermato: “Non voglio funerali da questa Chiesa corrotta”. L’allusione è forse al fatto che, per decenni, accanto ad encomiabili preti anti-mafia, alcuni dei quali vittime della mafia stessa (un nome su tutti: il beato Pino Puglisi), vi è stato un clero complice, omertoso e sottomesso alla criminalità organizzata (si pensi all’imbarazzante usanza dell’“inchino” delle statue mariane davanti alle case dei boss durante le processioni). Il fatto che, con gli anni, l’intera Chiesa siciliana abbia preso profondamente consapevolezza del male mafioso, scegliendo di combatterlo, è stato probabilmente visto da certi malavitosi come un tradimento.

Tra l’ossequio distaccato di Napolitano e l’astio manifesto di Messina Denaro, qual è allora il male minore? Non è questa la sede per sviscerare tale dilemma. Molto più costruttivo è riflettere sul fatto che entrambi, fino all’ultimo, hanno vissuto coerentemente con scelte che hanno abbracciato un’intera vita. È vero, la coscienza profonda di una persona che sta per morire è imponderabile e ingiudicabile ma l’immagine pubblica che l’uomo di Stato e l’uomo di mafia hanno mostrato, va in una direzione profondamente anticristiana. Entrambi erano accomunati, nel bene o nel male, dall’essere uomini di potere: di fronte al rantolio della morte, ogni essere umano, dal più fortunato al più sciagurato, va incontro alla miseria più grande. Nel passaggio estremo siamo tutti uguali: potrà distinguerci soltanto la risposta che si dà alla chiamata di Dio Padre. Il momento del giudizio finale è anche, per definizione, il momento della misericordia: dinnanzi al grande abuso che si fa di questa parola, dimentichiamo troppo spesso che la misericordia vive la sua apoteosi nel momento del passaggio alla vita ultraterrena ed è anche l’unica ricchezza di cui si può gloriare l’uomo che transita dalla vita alla morte. Quasi nessuno, però – chierico o laico – oserebbe più fare discorsi del genere. Tanto meno di fronte alla morte di un irreprensibile presidente della Repubblica o di uno spietato mafioso.