Libertà religiosa: la madre di tutte le libertà
“Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Con queste parole, Gesù spiazza Pilato che lo interroga sulla sua natura regale. Il Figlio di Dio trionfa soltanto nei Cieli, sulla terra il suo trono è la Croce e la sua corona un intreccio di rovi. La solennità di Cristo Re, che celebreremo domani, concludendo l’anno liturgico, ci ricorda una realtà scomoda, che spesso si tende a dimenticare: i cristiani non devono mai cercare, la gloria, il potere, il successo o l’affermazione personale. Unica loro ambizione è amare e servire, anche quando questo costa lacrime e sangue, odio e disprezzo. Duemila anni di storia hanno dato ampia conferma alle profezie del Vangelo: ieri, come oggi, i cristiani hanno sempre rappresentato l’identità religiosa più perseguitata e calpestata.
I dati del Rapporto biennale sulla libertà religiosa, pubblicato giovedì scorso e curato dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, parlano da soli: un cristiano su sette vive in paesi dove è diffusa la persecuzione nei loro confronti, mentre in totale sono 300 milioni in tutto il mondo, i cristiani che vivono sotto il giogo della persecuzione. Sono 38 i paesi in cui si registrano gravi o estreme violazioni della libertà religiosa: 21 di questi sono classificati come luoghi di persecuzione (Afghanistan, Arabia Saudita, Bangladesh, Birmania, Cina, Corea del Nord, Eritrea, India, Indonesia, Iraq, Libia, Niger, Nigeria, Pakistan, Palestina, Siria, Somalia, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan, Yemen), mentre gli altri 17 sono ritenuti luoghi di discriminazione (Algeria, Azerbaigian, Bhutan, Brunei, Egitto, Federazione Russa, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Laos, Maldive, Mauritania, Qatar, Tagikistan, Turchia, Ucraina, Vietnam). Una nota di speranza arriva dal Kenya e dalla Tanzania, classificate tra i paesi a rischio nella precedente edizione del Rapporto (2016) e oggi, dopo due anni, finalmente uscite dalla ‘lista nera’.
Il principale fattore di persecuzione religiosa è indubbiamente il fondamentalismo di matrice islamica, riscontrabile in 22 paesi, in cui vivono un miliardo e 337 milioni di persone. Le aree geografiche dove il fanatismo islamico miete più vittime sono: le regioni mediorientali – Iraq e Siria – fino a poco tempo fa sotto il dominio dell’ISIS, dove il fenomeno sta arretrando ma l’allerta è ancora alta; l’Egitto, di cui va ricordata la recente strage di copti a Minya, lo scorso 2 novembre); la Nigeria, dove Boko Haram è in declino ma desta preoccupazione l’ascesa della persecuzione ad opera dei pastori Fulani; il Pakistan, scenario dell’impressionante caso giudiziario di Asia Bibi, dove il fanatismo ha una forte presa sulla popolazione e le aggressioni sono assai diffuse tra la gente comune. Un aspetto specifico del fondamentalismo islamico anticristiano è il particolare accanimento contro le donne, frequentemente oggetto di sequestri, stupri (in particolare sotto l’ISIS e in Nigeria) e conversioni forzate.
La seconda causa di intolleranza religiosa è l’ultranazionalismo, diffuso soprattutto nei grandi paesi asiatici. Secondo questa concezione, di impianto laicista, lo Stato tende a considerare come nemiche un po’ tutte le tradizioni religiose, infierendo in particolare sulle minoranze. In Cina, esso è un retaggio del maoismo ateista e colpisce tanto i cristiani quanto i musulmani (si pensi alla repressione degli uiguri). Il recente accordo tra Pechino e la Santa Sede dovrebbe comunque lasciare ben sperare in un ammorbidimento da parte del governo.