Mondiali 2018: storie di calcio e di fede
Ancora poche ore e pure questa XXI edizione dei campionati mondiali di calcio chiuderà i battenti. Emozioni, esaltazioni, delusioni e polemiche come in tutte le grandi competizioni sportive. Dietro ogni partita c’è una squadra e dietro ogni squadra, ci sono uomini, con le loro virtù e fragilità. Uomini dal vissuto personale spesso poco conosciuto che, tuttavia, nei passaggi cruciali della loro attività agonistica, viene quasi sempre a galla. Cos’è che spinge tanti calciatori e allenatori ad affrontare sfide così importanti? Cos’è che li aiuta a reggere fatiche così immense, per non parlare degli infortuni e delle sconfitte, con tutti i contraccolpi psicologici che comportano? L’allenamento, la costanza, la tenacia e la fiducia nelle proprie doti umane e sportive. In molti casi anche la fede.
Nel suo messaggio in occasione della pubblicazione del documento Dare il meglio di sé. Sulla prospettiva cristiana dello sport e della persona umana, a cura del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, papa Francesco ha definito lo sport come “mezzo di missione e di santificazione” e di svelamento della “bellezza del creato e dell’essere umano stesso in quanto fatto a immagine e somiglianza di Dio”.
Andiamo allora a conoscere da vicino quattro storie molto avvincenti di altrettanti protagonisti del mondiale di Russia 2018. Due giocatori e due allenatori, sempre scesi in campo nella consapevolezza che una vera squadra gioca in dodici: undici uomini… e Dio. Solo con questa certezza, sarà possibile accogliere ogni vittoria come un dono e ogni sconfitta non come una disgrazia ma come un’esperienza da cui si può soltanto imparare.
Una vicenda assai commovente è quella di Romelu Lukaku. Il venticinquenne attaccante della nazionale belga è figlio di immigrati congolesi poverissimi. Più volte l’abbiamo visto inginocchiarsi e pregare a fine partita. Non solo per l’esito del match ma per ringraziare Dio di quanto gli ha dato. Anche il papà di Romelu era stato calciatore ma non aveva avuto altrettanta fortuna e, a fine carriera, era rimasto disoccupato. In casa Lukaku, ad Anversa, mancavano elettricità e riscaldamento. Per fare la doccia, era necessario bollire l’acqua. Pane e latte erano l’unico pasto quotidiano per Romelu e per suo fratello. Un giorno che il cibo scarseggiava particolarmente, a sei anni, il bimbo vide la mamma allungare il latte con acqua: “Non dissi nulla. Non volevo sovraccaricarla. Mangiai il mio pranzo. Feci una promessa a me stesso e a Dio quel giorno. Fu come se qualcuno, schioccando le dita, mi avesse svegliato. Sapevo esattamente cosa dovevo fare e cosa avrei fatto. Non potevo vedere mia madre vivere in quel modo”, ha raccontato il calciatore su The Players Tribune.
A sei anni, il bambino sentì che sarebbe diventato un calciatore: dieci anni dopo, avrebbe maturato l’età per l’ingaggio da professionista. Si sentì investito di una “missione” e doveva andare fino in fondo. A undici anni, agli allenamenti per le giovanili del Lierse si recava da solo, perché il papà era sprovvisto di automobile. Da solo Romelu dovette affrontare il genitore di un suo avversario, convinto si trattasse di un piccolo clandestino. Determinato, il ragazzo mostrò i documenti regolari, dopodiché giocò “con grande rabbia per via di molte cose”: dai ratti che correvano nel suo appartamento all’impossibilità di vedere la Champions League in TV.
A soli 16 anni, Romelu Lukaku ha debuttato in prima squadra con l’Anderlecht. “Avevo realizzato la promessa fatta a mia madre e a mio nonno. Quello fu il momento in cui capii che saremmo stati bene”. Nove anni dopo, Lukaku milita nel Manchester United, dopo una prima esperienza nella Premier League inglese con l’Everton. Ai Mondiali in Russia ha accarezzato il sogno portare il Belgio in finale, mettendo a segno comunque il miglior risultato per la sua nazionale dal 1986. C’è da stare sicuri che, anche dopo l’amarezza per la sconfitta con Francia, Lukaku abbia ringraziato il Signore per la straordinaria prestazione della sua squadra durante tutto il Mondiale.