È stata una fine novembre particolarmente densa di avvenimenti drammatici. Tutta l’Italia ha comprensibilmente seguito col fiato sospeso la terribile storia di Giulia Cecchettin, brutalmente assassinata dall’ex fidanzato Filippo Turetta in Veneto. Un gravissimo fatto di cronaca, trattato in lungo e in largo su tutte le testate. Meno rilievo aveva avuto invece il caso medico-giudiziario della piccola Indi Gregory, tristemente conclusosi con la morte della piccola presso l’ospedale di Nottingham dove era ricoverata. Entrambe le vicende sono state commentate negli ultimi editoriali su Cristiani Today.
Ci limitiamo ad aggiungere che amareggia parecchio il minor rilievo mediatico dato a Indi rispetto a Giulia. Per quale motivo l’uccisione di una giovane donna adulta dovrebbe fare più notizia della soppressione (per quanto legale…) di una bimba gravemente di pochi mesi? Ci troviamo in entrambi i casi di fronte a due episodi di violenza sulle donne, sia pure di diversissima matrice e implicazioni. Eppure c’è da scommettere che molti di coloro che sono rimasti sconvolti dal femminicidio di Fossò, siano rimasti indifferenti di fronte a quanto si consumava oltremanica.
L’approccio “due pesi e due misure” è una conseguenza quasi naturale dell’eclissi della ragione che caratterizza i nostri tempi. Un’eclissi che mostra il suo volto più selvaggio e allucinato in un terzo episodio, conclusosi senza esiti particolarmente cruenti ma non per questo meno inquietante. Ci riferiamo a quanto accaduto sabato scorso a Roma, con l’aggressione alla sede di Pro Vita & Famiglia. Non è la prima volta che il quartier generale della onlus finisce nel mirino di squadracce pseudo-femministe o Lgbt+. Stavolta, però, l’episodio è ben più grave per almeno tre motivi. In primo luogo, l’esplosivo introdotto nei locali di Pro Vita & Famiglia dopo la rottura di un vetro (e poi fortunatamente disinnescato) avrebbe potuto provocare danni ben più gravi e persino qualche vittima.
Secondo motivo che rende ancor più esecrabile l’aggressione: l’episodio di violenza è avvenuto al culmine di una manifestazione che, almeno negli intenti, era stata portata in piazza per condannare la violenza sulle donne. L’ennesima dimostrazione, dunque, di come l’aggressività e l’ipocrisia vadano a braccetto molto più di quanto si possa immaginare.
Terzo motivo di scandalo: è stato compiuto un attentato contro la sede di un’associazione che non solo non ha mai incitato alla violenza nessuno ma è anche in prima linea per aiutare le donne, in particolare le mamme in difficoltà. Evidentemente, però, per il collettivo transfemminista (SIC) che sabato 26 novembre percorreva viale Manzoni, la maternità stessa è una forma di violenza. Peccato che quelle stesse manifestanti, ammesso e non concesso che madri non lo diventino mai, sono tutte delle figlie: tutte vittime del patriarcato le loro madri?
Ultimo ma non ultimo: una larga parte del mondo politico – verosimilmente identificabile con coloro che più entusiasticamente ha sostenuto la manifestazione – non ha condannato l’increscioso episodio. Ricattati e costretti a tacere? Oppure tacitamente conniventi?
Parafrasando il titolo di un celebre romanzo italiano novecentesco, sorge spontaneo chiedersi se questa è una donna. Quella stessa donna vocata per accogliere la vita e per diffondere e coltivare la dolcezza, l’empatia e l’istinto materno arriva a esercitare quella violenza che lei stessa dice di voler condannare. Un cortocircuito pazzesco. Illogico. In questa spirale di follia, preferiamo tornare ad accendere il lume della ragione. Fermiamoci adesso, prima che sia troppo tardi.