Speravamo di non dover più tornare a scrivere su fatti simili ma anche stavolta è accaduto. La storia si ripete e, purtroppo, in negativo. Ancora una volta un bambino britannico gravemente malato viene letteralmente condannato a morte dalla sanità e dalla giustizia del suo Paese, mentre l’Italia compie un disperato tentativo di salvarlo e accoglierlo. Era accaduto, con esito tragico, nel 2017 con il piccolo Charlie Gard e poi, l’anno dopo con Alfie Evans. Miglior sorte aveva avuto, alla fine del 2019, Tafida Raqeeb. Quest’anno è toccato alla piccola Indi Gregory, nata a Nottingham lo scorso febbraio da Dean Gregory e Claire Staniforth e affetta da sindrome mitocondriale, una malattia inguaribile che inibisce lo sviluppo muscolare, rendendo pressocché impossibile respirare autonomamente.
Ieri è stato respinto l’ultimo ricorso dei genitori di Indi alla giustizia britannica. Il tribunale ha infatti dato ragione al Queen Medical Center di Nottingham, in cui la bambina è ricoverata, favorevole alla sospensione dei supporti vitali e contraria al trasferimento della piccola paziente. Il giudice Peter Jackson ha rigettato anche il possibile cambio di giurisdizione a favore della magistratura italiana; il nostro governo, infatti, aveva concesso la cittadinanza a Indi, per consentire ai genitori di trasferirla a Roma, dove l’ospedale pediatrico Bambino Gesù si era messo a disposizione per ricoverare la piccola. Se è vero che la sindrome mitocondriale di cui è affetta Indi conduce alla morte nel giro di pochi mesi, è altrettanto vero che per qualunque paziente in prognosi infausta, sono possibili le cure palliative, per accompagnarlo alla morte naturale, nella maniera più serena possibile.
Quello disposto dalla giustizia britannica, al contrario, è un omicidio legalizzato a tutti gli effetti. Secondo quanto riferito da Pro Vita & Famiglia che segue da vicino il caso giudiziario assieme all’avvocato Simone Pillon, il giudice Jackson ha definito l’intervento italiano ai sensi della Convenzione dell’Aia “non nello spirito della Convenzione”. I giudici hanno inoltre affermato che i tribunali inglesi sono nella posizione migliore per valutare l’“interesse superiore” (SIC) della bambina, quindi non è necessario un tribunale italiano. I legali della famiglia Gregory hanno comunque fatto sapere che, nel frattempo, si sta lavorando ad altri percorsi, che valuteranno da qui fino a lunedì. Nel frattempo, il papà di Indy ha lanciato un appello al governo Meloni perché “non si arrenda”, chiedendo ai nostri politici: “Per favore continuate a lottare per mia figlia”. Dean Gregory ha quindi ribadito: “Abbiamo solo poche ore per salvarla, per favore aiutatemi. Sto pregando per un miracolo. Indi vuole vivere”.
Il dramma che la famiglia Gregory sta vivendo lancia una sfida a chiunque abbia ancora a cuore la sorte dei più fragili, in particolare dei bambini: anche se sono almeno sette anni che si ripetono casi del genere, non dovremmo mai abituarci a queste ingiustizie, né arrenderci alla prepotenza della cultura della morte. Finché apprendere storie del genere ci procurerà tristezza, dolore e anche rabbia, c’è ancora speranza di cambiare il mondo in meglio. Nessun bene si conquista mai senza patire: più forte è la sofferenza, più grande sarà il bene ottenuto. Avremo perso di sicuro, al contrario, nel momento in cui alla morte così straziante e crudele di un innocente dovesse corrispondere l’anestesia del nostro dolore. Avremmo perso, qualora questioni del genere si affrontassero all’insegna della sfiducia e per una pura questione etica o “di principio”.
È significativo, infine, che le vicende di Alfie, di Tafida e di Indi abbiano sempre avuto come sfondo le stesse nazioni: il Regno Unito e l’Italia. Le dispute giudiziarie sorte intorno ai tre casi hanno una forte valenza anche politica e religiosa. La sempre maggiore ostinazione dei britannici nella direzione della cultura dello scarto e della soppressione dei più deboli è il segno di un pertinace rifiuto delle proprie radici cristiane e, in special modo, cattoliche. Da notare che, l’unico caso in cui i tribunali britannici hanno compiuto un atto di clemenza è stato con Tafida: non solo la bimba è musulmana ma l’ospedale che, con esito felice, l’ha accolta, è una struttura laica – il Gaslini di Genova.
Sarà forse un caso che, al contrario, ad Alfie e a Indi, entrambi cattolici, è stato impedito il trasferimento al Bambino Gesù, ospedale sotto la giurisdizione della Santa Sede? La disponibilità dell’Italia ad accogliere Indi e la sua famiglia fa onore al nostro Paese ma tale gesto va inquadrato nel contesto della cultura cattolica che ancora lo impregna e che – in drammatiche occasioni come queste – miracolosamente si risveglia. Nella supplica dell’Italia e del Vaticano per salvare la vita della piccola Indi, c’è quindi anche un appello della Chiesa di Roma a un popolo – quello britannico – che 500 anni fa, con re Enrico VIII, fece una scelta di apostasia. Tra le righe, va letto come l’appello di una madre a un figlio ribelle. Nel segno di quanto di più sacro possa esserci tra le cose materiali e immanenti: la vita umana.