Dieci anni di papa Francesco: la Chiesa a un bivio

Elezione papa Francesco
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Quello del 12-13 marzo 2013 fu un conclave assolutamente atipico. Un mese prima, tutto il mondo – a romano pontefice vivente e in carica – aveva già guadagnato la certezza che in quelle settimane sarebbe stato eletto il nuovo successore di Pietro. La rinuncia di Benedetto XVI – altra scioccante anomalia di quel primo scorcio di anno – aveva dato la stura al più lungo e imprevedibile “toto-papa” della storia. Nel mese esatto che separò l’annuncio delle dimissioni di Ratzinger dall’apertura del conclave, si susseguirono i nomi più disparati: lo statunitense Timothy Dolan, il brasiliano Odilio Pedro Scherer, il filippino Luis Antonio Tagle. Il nome più gettonato, tuttavia, rimase per quasi tutto il tempo, quello di Angelo Scola, il più rappresentativo tra i cardinali non solo italiani ma anche europei. Quella dell’arcivescovo di Milano sarebbe stata la scelta più in continuità con il pontificato ratzingeriano, una sorta di transizione morbida, volta ad attutire il trauma di una rinuncia pontificia, difficilmente elaborabile dal sentimento cattolico collettivo.

Le cose, però, andarono molto diversamente. Durante le congregazioni che precedettero il conclave, il collegio cardinalizio rimase letteralmente conquistato dall’accorato e appassionato discorso dell’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. In quel testo, diffuso in seguito dal cardinale cubano Jaime Lucas Ortega y Alamino, c’era in nuce, l’intero programma del successivo pontificato: respingere il “narcisismo teologico” e l’autoreferenzialità, per aiutare la Chiesa “a uscire da se stessa verso le periferie esistenziali” e ad “essere la madre feconda che vive della dolce e confortante gioia dell’evangelizzare”.

Il resto è storia: la sera di mercoledì 13 marzo 2013, i romani accorsi in piazza San Pietro dopo la fumata bianca, si sorpresero nel vedere quel gesuita argentino giunto “dalla fine del mondo” apparire dalla loggia della basilica vaticana, privo della croce d’oro e dell’ermellino pontificale, presentandosi come vescovo di Roma e con un irrituale “buonasera”. Nel giro di pochi giorni, sarebbe emersa in tutta la sua forza, la spiccata identità del nuovo pontefice: prima su tutti, la spinta per una “Chiesa povera per i poveri”, confermata in gesti concreti come la rinuncia all’appartamento pontificio, a favore della più informale Casa Santa Marta, o la scelta di celebrare l’imminente Giovedì Santo lavando i piedi non a dodici sacerdoti in San Pietro ma ai detenuti del carcere minorile di Casal del Marmo.

I primi anni – e, soprattutto i primi mesi – del pontificato di papa Francesco sono stati caratterizzati da aspettative altissime, dentro e fuori la Chiesa. Come già successo con San Giovanni XXIII, era emerso un profilo papale potenzialmente in grado di mettere d’accordo tutti, credenti e non credenti, e forse addirittura in grado di riavvicinare molte “pecore perdute” all’“ovile”. In una Chiesa che, fin dalle sue fondamenta, avvertiva un impellente bisogno di rinnovamento, purificazione e trasparenza, la figura di Jorge Mario Bergoglio appariva la più idonea per avviare una coraggiosa svolta. Va dato atto a Francesco di essere stato di parola, portando avanti un’azione di rinnovamento, che ha preso pieghe talora inaspettate. Nel passato, i pontefici “innovatori” sono stati numerosi: pochissimi, però – forse nessuno – hanno impresso così tanti cambiamenti e così radicali in tanti ambiti della vita ecclesiale come ha fatto Francesco.

La riforma della Curia Romana è stata sicuramente il tratto esteriore più evidente del rinnovamento bergogliano. Una struttura burocratica decisamente più alleggerita da tanti “enti inutili”, anche attraverso accorpamenti e scelte “impopolari” che hanno allontanato dal Vaticano numerosi laici e prelati. Il cambiamento impresso da papa Francesco non è stato solo di forma ma anche di sostanza. È stato un cambiamento di approccio e di linguaggio, con modalità apprezzate da molti ma non da tutti: si pensi alla massiccia presenza mediatica, con la concessione di un numero senza precedenti di interviste, oltretutto quasi sempre rilasciate a testate “laiche”, oppure poco conosciute. O anche il ricorso ai discorsi a braccio e all’interlocuzione informale, più “da parroco” che non “da Papa”. Francesco è il Papa delle vere o presunte aperture, dai “chi sono io per giudicare” nei confronti degli omosessuali, alla vicinanza a migranti e rifugiati, passando per la svolta ecologista in Vaticano, fino al rilancio del dialogo islamo-cristiano, che ha avuto il suo coronamento nella storica dichiarazione di Abu Dhabi e nell’enciclica Fratelli tutti. Bergoglio è il Papa delle carezze ai poveri e del “pugno di ferro” contro la corruzione nella Chiesa, contro i clericalismi e i neofariseismi che soffocano le comunità.

Papa Francesco conclude il suo primo decennio di pontificato, tra tante sfide ancora aperte ed un rinnovamento che si è rivelato più sofferto e doloroso del previsto. La linea dura contro gli abusi sessuali – specie contro i minori – gli ha procurato molti amici e altrettanti nemici. Un aspetto molto discusso è stata la sua linea “rigorista” nel biennio della pandemia, con il suo appoggio ai lockdown e alla sospensione delle messe, prima, e agli obblighi vaccinali, poi: un approccio criticato da molti, in quanto percepito come coerente più con i dettami dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che non con l’autonomia della Chiesa rispetto alle legislazioni laico-statali. Più consenso ha riscosso la sua equilibrata posizione sulla guerra in Ucraina, una delle poche realmente improntata a una risoluzione pacifica del conflitto. A livello teologico-pastorale, poi, Bergoglio ha scontentato un po’ tutti. In primo luogo, le sue innovazioni hanno messo nell’angolo le ali più conservatrici e tradizionali della Chiesa, com’è avvenuto in particolare con le restrizioni alla messa vetus ordo ma non va trascurata, sull’altro versante, la spinta scismatica della Chiesa tedesca.

In questa fase declinante, con un papa ottantaseienne, non più in florida salute, il pontificato di Francesco continua a mostrarsi come segno di contraddizione di una Chiesa oggettivamente in crisi ma non propriamente in declino. Una Chiesa consapevole di dover cambiare ma non ancora del tutto consapevole riguardo al tipo di cambiamento da intraprendere. Il bivio non è di poco conto: adeguarsi al mondo fino a dissolversi in esso o, piuttosto, tornare a Cristo e al suo radicale messaggio, votato al martirio e alla redenzione. Papa Francesco si colloca al centro di questa temperie o – se si preferisce – di questa tempesta. Anche per questo, al di là dei gusti di ciascuno intorno alla sua persona e al suo operato, è lecito prendere sul serio la sua raccomandazione reiterata alla fine di ogni appuntamento pubblico: “Non dimenticatevi di pregare per me”.