Il “grande reset” della libertà d’opinione è già iniziato

Il “grande reset” della libertà d’opinione è già iniziato
Foto: CC0 Pixabay

Già nel novembre 2019 e nel giugno 2020, avevamo mandato il nostro campanello d’allarme: la libertà d’opinione è in pericolo. Non veniteci a dire, però, che siamo stati profetici. Forse, più semplicemente, abbiamo avuto spirito d’osservazione. Adesso, comunque, la realtà è sotto gli occhi di chiunque e anche i più insospettabili stanno iniziando a comprendere che non si può più fare finta di nulla.

I fatti sono noti a tutti: a seguito del tragico episodio di Capitol Hill, i principali socialnetwork, a partire da Facebook e Twitter, hanno bloccato le pagine ufficiali del presidente uscente deli USA, Donald Trump e di tutti i suoi familiari, compreso il figlio quattordicenne Barron. Quasi contemporaneamente, è stato oscurato Parler, uno dei pochi social di ispirazione conservatrice e “filo-trumpiana”. Lanciato nel 2018, in diretta concorrenza con Twitter, tra l’8 e il 10 gennaio, Parler ha subito un triplice assalto: da parte di Google, che lo ha escluso dal suo sistema e dal suo catalogo, rendendolo anche incompatibile con i cellulari Android; da parte di Apple; da parte di Amazon, che faceva da host al sito web. John Matze, amministratore delegato di Parler è stato persino minacciato di morte. Matze ha quindi avviato una causa legale contro i tre colossi informatici ma la strada pare decisamente in salita.

Sospendendo qualunque giudizio di valore, in un senso o nell’altro, sull’operato politico di Trump, urgono tuttavia una serie di considerazioni sulla libertà d’opinione oggi minacciata. Quando 12-15 anni fa, i primi socialnetwork iniziarono ad affacciarsi sulla scena del web, a tutti erano apparsi come un passatempo tutto sommato innocente. In particolare, Facebook si era rivelato il prodotto più efficace, presentandosi con una finalità essenziale: rimanere in contatto con le persone della propria vita. Il social di Mark Zuckerberg risultò utile a molti per rintracciare ex compagni di scuola, per condividere fotografie e momenti di vita reale con gli amici di ogni giorno o anche per “accorciare le distanze” con persone care che vivevano dall’altra parte del mondo.

A poco a poco, la destinazione d’uso del prodotto si è evoluta, cosicché, dalle relazioni con le persone reali si iniziava a passare alla ricerca di “amici virtuali”, con cui condividere interessi e, in certi casi, gli affari. Facebook è diventato così un network che metteva in contatto migliaia, anche milioni di persone. Forum, think tank e gruppi di discussione prendevano forma su qualsiasi argomento. Le pagine Facebook dei vip e, in particolare, dei politici abbattevano le distanze precedentemente esistenti tra le élite e la massa. Un processo di disintermediazione che non ha precedenti nella storia. Venendo poi quotati in borsa, Facebook e Twitter si sono trasformati in colossi dalla doppia natura politica e finanziaria.

Provare a spiegare cosa siano oggi i socialnetwork equivale a risolvere un rebus. Sul piano giuridico, indubbiamente, essi rimangono dei soggetti privati, quindi suscettibili di agire secondo le regole del mercato. Al tempo stesso, il regime di oligopolio in cui operano, l’estensione impressionante della loro influenza, la loro fruizione gratuita, la loro funzionalità interattiva e il loro uso a scopo anche politico, li portano a svolgere un vero e proprio servizio pubblico. Anche per questo, sorgono spontanei alcuni interrogativi. Ad esempio: per quale motivo a Mark Zuckeberg e a Jack Dorsey conviene censurare i profili di Trump se poi, subito dopo, Facebook e Twitter hanno perduto in borsa rispettivamente il 3,2% e il 10%? Senza contare i 25 milioni di utenti che hanno abbandonato Whatsup (di proprietà di Facebook) nell’arco di 72 ore – a causa delle nuove politiche sulla privacy che decorreranno dall’8 febbraio – per approdare su Telegram o Signal.

È ormai evidente, quindi, che le dimensioni così mastodontiche di questi nuovi imperi dell’informazione li portano ad agire secondo logiche che esulano sia dall’economia di mercato che dal normale confronto democratico. È davvero paradossale: Facebook, che per anni ha rappresentato la principale cassa di risonanza per i conservatori, i populisti e i sovranisti di tutto il mondo, fin quasi a farne sospettare una connivenza (vedi lo scandalo Cambridge Analytics), oggi va a mettere il bavaglio a quello stesso bacino d’utenza. Conservando lo status di aziende private, i socialnetwork dovrebbero avere tutto l’interesse a veicolare qualunque opinione: avrebbero soltanto da guadagnarne in termini di pubblicità. A meno che non ritengano opportuno trasformarsi in editori ma né Zuckeberg, né Dorsey hanno mai manifestato queste intenzioni. È quindi evidente che qualche soggetto ancora più potente sta esercitando delle pressioni su di loro.

Nella stessa misura in cui oggi è stato colpito (e affondato) Trump, un domani, qualsiasi altro uomo politico o partito potrà essere neutralizzato a piacimento. Le stesse “regole della community”, in base alla quale qualsiasi utente può segnalare i contenuti a lui sgraditi si sono sempre rivelate ambigue ed equivocabili. Ad esempio: tantissime immagini innocenti di mamme che allattano i loro bambini sono state censurate in quanto “nudo”. Per contro è risultato molto più difficile rimuovere foto, video e intere pagine dai contenuti palesemente pedopornografici. Gli stessi profili o pagine di ispirazione cristiana sono tollerati ma quando i loro utenti entrano in terreni scomodi – uno su tutti: il gender – la censura scatta in quattro e quattr’otto.

In compenso, quando un utente cattolico va a segnalare un gruppo dove i membri esaltano e praticano l’“arte” della bestemmia, gli viene risposto picche. Per non parlare delle centinaia di pagine, mai rimosse né bloccate, che raggruppano jihadisti e terroristi islamici. Lo stesso omicidio del professor Samuel Paty, in Francia, è avvenuto grazie a una cospirazione costruita sui social. È anche per queste ragioni che in Polonia, il parlamento sta discutendo un progetto di legge che impedirebbe ai social ogni forma di censura, al di fuori dei contenuti in contrasto con la legge nazionale.

Aziende come Facebook e Twitter, oltretutto, pagano pochissime tasse e non detengono alcuna responsabilità legale per i contenuti veicolati dai loro utenti, i cui dati personali vengono riutilizzati a piacimento per fini commerciali. Se soggetti così potenti continueranno ad operare in modo così arbitrario, allora sarà chiaro a tutti che ci troviamo di fronte ad abusi conclamati. Il Grande Fratello non è più distopia ma realtà. E il grande reset della libertà d’opinione è già iniziato.