Siamo appena entrati nel decimo anno dalla storica rinuncia di papa Benedetto XVI. Una data importante, non tanto per l’evento in sé – pur rilevantissimo – quanto per lo svelamento definitivo della crisi del papato e della Chiesa tutta. Uno stato di cose sempre più percepito, e con sofferenza, dai fedeli comuni. Una crisi epocale che ha molti volti e mille sfaccettature ma che (come già avevamo osservato su queste colonne, due anni e mezzo fa) concorre anch’essa al bene.
Come fu epocale quella decisione presa l’11 febbraio 2013, lo è stata anche la lettera diffusa dallo stesso Papa emerito lo scorso 6 febbraio. Benedetto XVI, il Papa delle certezze granitiche, della logica e della solidità dottrinale, ha espresso tutto il rammarico e la contrizione di un uomo di quasi 95 anni, che, a breve, si ritroverà “di fronte al giudice ultimo” della propria vita. Se in un passato non lontanissimo, durante il Grande Giubileo, San Giovanni Paolo II aveva chiesto perdono per i peccati della Chiesa del passato, oggi, il suo immediato successore ha chiesto scusa per le sue personali mancanze.
Intervenendo sullo scandalo degli abusi sessuali consumatisi nell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga alla fine degli anni ‘70, Ratzinger ha individuato una “svista” riguardo alla propria partecipazione alla riunione dell’Ordinariato del 15 gennaio 1980, che non era stata rilevata nella precedente memoria difensiva. “Questo errore, che purtroppo si è verificato, non è stato intenzionalmente voluto e spero sia scusabile”, scrive il Papa emerito, rimanendo però addolorato dal fatto che quella svista “sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi come bugiardo”.
Com’è nel suo stile, Ratzinger ha spaccato il capello in quattro. Ha chiesto perdono per la propria “grandissima” colpa; una colpa, nonostante tutto, lievissima se messa a confronto con i delitti compiuti quarant’anni fa da alcuni sacerdoti nell’arcidiocesi del futuro papa. “Per quanto grande possa essere oggi la mia colpa, il Signore mi perdona, se con sincerità mi lascio scrutare da Lui e sono realmente disposto al cambiamento di me stesso”, aggiunge Benedetto XVI, lasciando così un messaggio di speranza, pur rimanendo incancellabile la sua “profonda vergogna” e il proprio “dolore” per “gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi”.
La “fragilità” di un papa che prima si dimette e poi confessa apertamente i suoi errori, ci restituisce il volto meno divino e più umano di una Chiesa che – casta meretrix – è fatta di peccatori, che tuttavia non perdono il desiderio di essere redenti. Per dirla con San Paolo, una Chiesa che, nella debolezza, si scopre forte (cfr 2Cor 12,10) ma quella forza non può essere certo di matrice umana.
Lo stesso papa Francesco, durante la sua lunga intervista rilasciata a Fabio Fazio per Che tempo che fa su RaiTre, ha confessato di essersi trovato anche lui “tante volte” nelle condizioni di “dialogare con il Male”. E ha ammesso: “I Papi di prima erano santi, io non me la cavo, non sono tanto santo”. In quel servizio televisivo, che non ha mancato di suscitare polemiche tra gli stessi cattolici, il pontefice argentino ancora una volta è sceso dalla cattedra di Pietro, ponendosi – nel bene o nel male – come un cristiano qualunque. L’incapacità di dare un senso alla sofferenza degli innocenti, e in particolare dei bambini – confidata dal Santo Padre a Fazio – è un limite che accomuna il vicario di Cristo in terra a tanti altri battezzati.
Più che il Papa, ne è emerso l’uomo Jorge Mario Bergoglio che da giovane era un grande appassionato di tango e che da bambino voleva fare il macellaio, perché – pensava – avrebbe guadagnato discretamente. Va dato atto, comunque, a Francesco di aver trattato davanti a un pubblico televisivo in larga parte secolarizzato, temi impegnativi come il mistero dell’iniquità, Cristo come unico redentore possibile, i pericoli dello gnosticismo e del pelagianesimo. Il Pontefice è sceso dalla cattedra, parlando da pari a pari con un giornalista notoriamente anticlericale. Così facendo, si è assunto una serie di innegabili rischi, a partire da quello dell’apparire “desacralizzato” e del venire frainteso da parte dei cattolici.
L’eccezionalità dei tempi che viviamo ci induce a non lasciarci sconvolgere più di tanto per la posizione di debolezza in cui versa la Chiesa tutta, a partire dai suoi vertici. Nemmeno la compresenza di due pontefici, né l’immagine fragilmente umana che trasmettono, devono scandalizzarci. Non è una Chiesa trionfante quella dei nostri giorni ma una Chiesa barcollante e umiliata fors’anche oltre i suoi reali demeriti. Gesù ha scelto di affidare la sua Chiesa a Pietro: non ha designato come suo successore un uomo impeccabile ma un impulsivo, pavido, umorale, incline ai compromessi e ai voltafaccia. In una cosa, però, il pescatore di Cafarnao riesce a fare la differenza: sa di aver bisogno del Maestro: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo» (Gv 21,15). Nella crisi attuale della Chiesa – una crisi dai contorni misteriosi e non spiegabili in termini umani – andiamo avanti ognuno nella consapevolezza di ciò che è: un peccatore con concretissime possibilità di redenzione. Quest’ultima è la natura di tutti, dal Papa all’ultimo dei battezzati.