Vivere e servire per far rinascere la pace

ucraina, pace
pixabay.com

Abbiamo avuto modo di intervistare Ercolina Antoni, Missionaria dell’Immacolata Padre Kolbe, per conto della sua comunità, che dall’inizio della guerra in Ucraina, si è messa a disposizione per accogliere i profughi nella casa del pellegrino che fa parte del Centro San Massimiliano Kolbe, a Harmęże, vicino ad Auschwitz, in Polonia. Le Missionarie ci rendono partecipi della loro esperienza, e dei segni di speranza anche in mezzo alla sofferenza.

  1. Diteci qualcosa sull’accoglienza dei profughi nella vostra zona in Polonia, che clima c’è tra la gente e poi nello specifico chi state accogliendo voi nel Centro San Massimiliano Kolbe?

Nel nostro Centro Padre Kolbe stiamo accogliendo mamme e bambini ma ci sono anche degli adolescenti che provengono da varie città, da luoghi diversi dell’Ucraina e si sono conosciuti strada facendo. Noi stiamo collaborando con i padri Francescani Conventuali di Harmęże e insieme nelle nostre strutture in questo momento ci sono 50 persone fisse, che si fermano per ora qui. Ne stiamo aspettando di altre. Queste mamme e gli adolescenti vengono dalle famiglie che hanno dei membri uomini, pompieri. Sono stati infatti i pompieri polacchi del distretto di Cracovia che si sono organizzati, per essere di aiuto a queste famiglie. Con il padre Władysław, uno dei frati, pompiere anche lui, li stiamo aiutando. Loro ci sostengono, li vanno a prendere alla frontiera, li trasportano e trovano alloggi per le persone. L’aiuto di cui hanno bisogno non è solamente materiale, ma anche psicologico, hanno bisogno di affetto, perché tutti i loro parenti maschi: padri, mariti, fratelli, sono rimasti a combattere, a difendere la loro terra e la loro libertà. Alcune altre persone adulte, familiari di questi nostri ospiti, non hanno voluto allontanarsi dalle loro case. Per cui i profughi vivono momenti di ansia, spesso li troviamo anche molto scoraggiati e tristi.

missionarie, Polonia
kolbemission.org
  1. Come vivete questa nuova missione voi, Missionarie, che cosa significa per voi?

Stiamo condividendo insieme a tutto il mondo questo particolare momento, questa nuova e dolorosa pagina della storia. La viviamo come una nuova chiamata del Signore, a volgere lo sguardo su questi nostri fratelli dell’Ucraina, che vivono al confine con la Polonia. Qui si respira un forte clima di solidarietà e impegno e di tanto aiuto tangibile, espressioni proprio concrete e anche sentimenti di affetto e di dono, e di accoglienza verso queste mamme e bambini che fanno tanta tenerezza e che hanno bisogno di un rifugio. Questo tempo lo stiamo vivendo come nel dono di noi stesse, come quasi una grazia, una bella opportunità, per condividere ciò che Dio ha donato a noi e al nostro istituto, tutto quello che abbiamo ricevuto perché fosse condiviso.

  1. Cosa pensate possa essere questa accoglienza che offrite, in riferimento al luogo kolbiano dove vi trovate, vicino ad Auschwitz, e alla storia?

È un’esperienza unica nel donarci, pur nella diversità e nelle difficoltà della lingua, c’è tanta gioia nel dare e nel condividere, più che nel ricevere. Per noi significa anche vivere l’oggi, e sentire vicino il p. Kolbe che a Niepokalanów (Città dell’Immacolata ndr), dopo la guerra, ha sentito la necessità di accogliere e trasformare il suo progetto di questa Città dell’Immacolata, in un luogo di accoglienza, dando amore e cercando di vivere la carità, perché davvero la carità è l’essenza del Vangelo.

 4. Raccontate qualche episodio, anche semplice, o gesto particolare, che vi ha colpito, in questi giorni di accoglienza, che parla del dolore e anche della speranza.

Davvero nella nostra piccolezza stiamo sperimentando che davvero “solo l’amore è la forza creatrice” (s. Massimiliano). E questo lo vediamo nel volto dei bambini quando sorridono, anche nel volto dei volontari e degli amici, che si presentano disinteressatamente. Non ho tanti racconti, ma mi ha impressionato vedere le mamme proprio di qui, di Harmęże, che vengono con i loro bambini, che portano i loro giocattoli, nell’intento di voler alleviare il dolore di chi ha dovuto scappare, con la paura delle bombe e che non ha dove fermarsi. Mi ha anche colpito la testimonianza di Matteo, un bambino di 9 anni, che ha scritto, servendosi del traduttore del suo cellulare, in cirillico una letterina, che si conclude: “Siate benvenuti, anche se non vi conosco, vi voglio bene”. Anche il gesto di oggi, un pranzo offerto per tutti, da un catering, è stata una forma di espressione d’amore. E poi mi ha colpito profondamente una mamma che questa mattina ci ha detto: “Ieri sera ho saputo che è caduta una bomba vicino alla mia casa, però sono contenta di aver potuto salvare almeno le mie due bambine”. Lo ha detto con tanta fortezza e dignità. Veramente, la guerra distrugge, ma chi vive può far rinascere la pace e far rifiorire il deserto.