Il mondo è sull’orlo di una catastrofe. Lo è non soltanto perché il conflitto russo-ucraino ha reso concreta la minaccia di un olocausto nucleare. La catastrofe nasce da una profonda crisi antropologica, in forza della quale l’umanità ha dichiarato guerra a se stessa. Mai così tanto, in tutta la sua storia, l’uomo ha avuto in spregio la vita. Lo vediamo nei conflitti che funestano l’Ucraina e tante altre parti del mondo ma lo vediamo anche con la diffusione incontrastata dell’aborto e dell’eutanasia.
L’ennesima vittima della “dolce morte” è una giovane belga. È successo lo scorso 7 maggio ma la vicenda è salita agli onori delle cronache soltanto questa settimana: la 23enne Shanti Della Corte ha ricevuto il trattamento eutanasico, che il sistema sanitario del suo Paese – tragicamente all’avanguardia in questo campo – concede anche quando il paziente è affetto da depressione. Così è stato per Shanti che aveva perso ogni desiderio di vivere dal 22 marzo 2016, giorno dello spaventoso attentato dell’ISIS all’aeroporto di Bruxelles. La ragazza, allora 17enne, era rimasta miracolosamente illesa. Non per tutti sfuggire a una morte così crudele è vissuto come una benedizione. Shanti era rimasta così traumatizzata e tormentata dagli incubi che nel 2020, al colmo della disperazione, aveva tentato di togliersi la vita.
Il lato più sconcertante di tutta questa vicenda è l’atteggiamento dei familiari. In particolare, la madre ha voluto assecondare la pulsione di morte di Shanti, ormai convinta si trattasse di “una battaglia che non poteva vincere”, tanto forte era il terrore che impregnava ormai ogni momento della sua esistenza. Di fronte alla straziante domanda: “perché non posso morire?”, la madre si sarebbe “resa conto che Shanti avrebbe dovuto passare gli ultimi anni sopravvivendo, e che per lei non era possibile continuare a vivere in quel modo”.
Sull’iniquità dell’eutanasia abbiamo riflettuto parecchie volte [leggi qui, qui, qui, qui, qui e qui] ma, nel caso in oggetto, vengono alla luce ulteriori risvolti particolarmente inquietanti: uno è, per l’appunto, l’idea che una madre possa considerare la morte come la scelta migliore per suo figlio. Il secondo aspetto, strettamente legato al primo, risiede nella sconfitta della scienza: persino la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che pure si è espressa a favore dell’eutanasia per le persone depresse, è dovuta intervenire, deplorando la disinvoltura con cui i giudici belgi hanno concesso a Shanti il “diritto di morire”. Coraggiosa, in tal senso, è stata la presa di posizione di un neurologo della clinica Brugmann di Bruxelles, secondo il quale la ragazza avrebbe potuto ricevere le opportune cure mediche e psichiatriche in grado restituirle salute e serenità. Grazie a questa segnalazione la magistratura belga ha aperto un’inchiesta sul caso di Shanti Della Corte. Una medicina che – salvo sempre il vincolo dell’accanimento terapeutico – si rassegna così facilmente alla morte dei suoi pazienti, è una medicina che tradisce il suo scopo principale: guarire e salvare vite.
La triste storia di Shanti fa il paio con un’altra vicenda, capitata in Italia, che, apparentemente, c’entra poco o nulla. Stiamo parlando della sospensione del parroco di Bonassola, don Giulio Mignani, disposta dal vescovo di La Spezia-Sarzana-Brugnato, monsignor Luigi Palletti. Motivo della drastica decisione? Il presbitero non ha mai nascosto di non condividere la dottrina della Chiesa su matrimoni omosessuali, aborto ed eutanasia. La sanzione a carico di don Mignani ha fatto notizia per il semplice motivo che, pur non essendo pochi i sacerdoti che dissentono apertamente sul magistero, è piuttosto raro che un vescovo prenda provvedimenti nei loro confronti.
La stampa ha dato grande risalto alla manifestazione che ha visto in piazza circa 500 “sostenitori” (tutti parrocchiani?) di don Giulio, cavalcando così il falso mito di una Chiesa che perderebbe fedeli e seguaci perché non sarebbe “al passo coi tempi”. Un sacerdote, come qualsiasi altro battezzato, non è chiamato dalla Chiesa a propagandare le sue idee personali ma a diffondere la buona novella del Vangelo, la verità su Dio e sull’uomo. Come spiegò un giorno San Paolo VI, anche se la maggioranza dei fedeli aderissero a un “pensiero non cattolico”, quel pensiero non sarà mai il pensiero della Chiesa.
Non è una questione clericale e nemmeno spirituale. È un problema antropologico, umano. Così come nessuna madre può assecondare un desiderio di morte dei suoi figli, allo stesso modo, nessun sacerdote può mai assecondare tra i suoi fedeli idee che non hanno nulla a che vedere con la verità sull’uomo. Non si può andare contro il desiderio più profondo del cuore umano, fatto per la vita e per l’amore, non per la morte o per la disperazione. La libertà di prendere una strada sbagliata non è mai in discussione ma, prima o poi, se ne pagano amaramente le conseguenze. È tutto questo che rende le vicende di Shanti e di don Giulio molto più simili di quello che si pensi. Entrambe sono un segno dei tempi. Nessuna di queste due storie può rallegrarci, tuttavia, se avranno aiutato qualcuno a fare discernimento tra il bene e il male, non saranno trascorse invano.